Chicago, 2 giugno 2014
TEST DEL RESPIRO PER LA DIAGNOSI DEL CANCRO AL POLMONEUtilizzare il test del respiro per diagnosticare il tumore al polmone anche in fase iniziale. È questa una nuova possibilità dimostratasi già efficace e che apre la strada ad una metodologia diagnostica meno invasiva. Sono infatti soddisfacenti i risultati di uno studio coordinato dall’Università del Colorado e presentato al 50° Congresso ASCO. La ricerca di metodi diagnostici non invasivi per il cancro al polmone ha spinto in questi anni a percorrere nuove vie, inclusa appunto l’esplorazione del respiro attraverso test specifici. Questo studio (leggi abstract) ha valutato il potenziale rappresentato dal respiro proprio per analizzare la distinzione tra cancro al polmone in fase iniziale o avanzata. Campioni di respiro sono stati prelevati e analizzati da un campione di pazienti con cancro al polmone ancora non sottoposti a trattamento. I pazienti sono stati arruolati in Israele, Colorado e Florida, mentre i campioni di respiro sono stati analizzati in un laboratorio centrale israeliano. Lo studio è stato condotto su un totale di 358 persone, delle quali 213 con cancro al polmone e 145 sane. Buoni i risultati ottenuti da questa indagine-pilota internazionale: l’analisi del respiro si è infatti dimostrata in grado di distinguere tra le forme di cancro al polmone maligne e benigne e si è anche dimostrata in grado di distinguere tra forme avanzate e iniziali della malattia. Un approccio, quello del test del respiro, che facilita la diagnosi rapida della malattia offrendo così maggiori opportunità per un trattamento immediato. Questo tipo di test, infine, permette di individuare la malattia anche prima di poter avere a disposizione test ad immagini.
ANALISI DI SOTTOGRUPPO IN PAZIENTI CON TUMORE METASTATICO DEL COLON-RETTO CON MUTAZIONE RAS, BRAF E ‘ALL WILD-TYPE’ TRATTATI CON FOLFOXIRI E BEVACIZUMAB O FOLFIRI E BEVACIZUMAB NELLO STUDIO TRIBE
Lo studio TRIBE di fase III ha mostrato che la combinazione FOLFOXIRI e bevacizumab in prima linea poteva migliorare la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e la risposta secondo i criteri RECIST e, in analisi aggiustate, la sopravvivenza globale (OS), rispetto a FOLFIRI e bevacizumab. L’effetto prognostico e/o predittivo della mutazione RAS e BRAF agli anti-EGFR è ben noto. I ricercatori italiani hanno condotto questa analisi post-hoc, presentata al 50° congresso annuale ASCO 2014 (leggi abstract), nello studio TRIBE per descrivere l’effetto predittivo e prognostico di ciascuna classe molecolare. Analisi delle mutazioni sono state eseguite presso il Centro di Coordinazione (centralizzato). Le mutazioni nei codoni 12, 13 e 61 di KRAS e NRAS e nel codone 600 di BRAF sono state analizzate con pirosequenziamento del DNA tumorale estratto da lesioni primarie o metastasi. I pazienti che non erano portatori di mutazioni RAS o BRAF sono stati definiti come ‘all wild-type’. I risultati dell’analisi molecolare sono state eseguite su 375 dei 508 pazienti randomizzati (73.8%). Mutazioni di KRAS, NRAS e BRAF (mutato) sono state trovate rispettivamente in 198 (52.8%), 20 (5.3%) e 28 (7.5%) casi. I pazienti ‘all wild-type’ erano 129 (34.4%). Le analisi predittive non hanno indicato alcuna significativa interazione tra stato RAS e BRAF ed effetto del trattamento sia per PFS che per OS. I pazienti ‘all wild-type’ trattati con FOLFOXIRI e bevacizumab in prima linea hanno raggiunto una PFS e OS mediane rispettivamente di 13.3 e 41.7 mesi. Le analisi prognostiche hanno mostrato che, rispetto ai pazienti ‘all wild-type’, quelli con BRAF mutato avevano PFS e OS significativamente più brevi (PFS: HR 2.29, IC 95%: 1.49 – 3.52; p = 0.0002; OS: HR 3.31, IC 95%: 2.03 – 5.39; p < 0.0001), mentre i pazienti con RAS mutato non presentavano differenza in PFS (HR 1.15, IC 95%: 0.91 – 1.45; p = 0.256), ma avevano una OS significativamente ridotta (HR 1.48, IC 95%: 1.09 – 2.00; p = 0.012). In conclusione, il beneficio derivante da FOLFOXIRI e bevacizumab era indipendente dallo stato di mutazione RAS e BRAF, con un trend verso un maggiore beneficio nei tumori con BRAF mutato, valore tuttavia limitato dal basso numero di pazienti nel sottogruppo di analisi. I pazienti ‘all wild-type’ trattati con FOLFOXIRI e bevacizumab hanno ottenuto risultati di sopravvivenza libera da progressione e globale sorprendenti. Indipendentemente dal trattamento ricevuto, i pazienti con mutazione RAS o BRAF hanno mostrato una sopravvivenza a lungo termine più breve.
STUDIO DI FASE 3 SU IPILIMUMAB NEL MELANOMA NEL SETTING ADIUVANTE RAGGIUNGE L’ENDPOINT PRIMARIO DI SOPRAVVIVENZA LIBERA DA RECIDIVA
I risultati di uno studio di fase 3 (EORTC 18071), randomizzato, in doppio cieco, dimostrano che ipilimumab alla dose di 10 mg/kg (475 pazienti) ha significativamente migliorato la sopravvivenza libera da recidiva (RFS) rispetto al placebo (476 pazienti) in pazienti con melanoma in stadio 3 ad alto rischio di recidiva dopo resezione chirurgica completa, come terapia adiuvante. I dati (leggi abstract) sono stati presentati al 50° Congresso ASCO. Si è evidenziata una riduzione del 25% del rischio di recidiva o morte (HR = 0.75; 95% CI = 0.64–0.90; p = 0.0013). A tre anni, il 46.5% dei pazienti trattati con ipilimumab era libero da recidiva rispetto al 34.8% dei pazienti con placebo. La RFS mediana era di 26.1 mesi con ipilimumab vs. 17.1 mesi con il placebo, a un follow-up mediano di 2.7 anni. Gli eventi avversi legati al trattamento erano frequenti, la maggior parte immuno-correlati, e sono stati gestiti con i protocolli standard per gli eventi avversi di ipilimumab. Gli eventi avversi di grado ≥3 nei bracci trattati con ipilimumab e placebo erano a livello gastrointestinale (rispettivamente 15.9% vs 0.8%), epatico (10.6% vs 0.2%), endocrinologico (8.5% vs 0%) e dermatologico (4.5% vs 0%). La maggior parte è stata gestita e risolta usando gli algoritmi consolidati. Sulla base dell’assessment dell’investigator, l’incidenza dei decessi dovuti al trattamento nel braccio con ipilimumab era dell’1.1% (n=5), nessun decesso nel braccio con placebo. Il 52% dei pazienti (n=245) che hanno iniziato il trattamento con ipilimumab (n=471) ha interrotto il trattamento a causa degli eventi avversi rispetto all’1.7% (n=8) nel braccio con placebo. “Nonostante la forte probabilità di recidiva nei pazienti con melanoma in stadio 3, esistono limitate opzioni terapeutiche disponibili per ridurre il rischio di malattia metastatica dopo la chirurgia. C’è una sola classe di terapie a disposizione dei pazienti e questo standard di cura è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi 20 anni”, ha detto, presentando i risultati, Alexander Eggermont, direttore generale del Cancer Institute Gustave Roussy di Villejuif (Francia), primo autore dello studio. “Questi risultati sono significativi non solo perché ipilimumab è il primo inibitore di ‘checkpoint’ immunitario a dimostrare un miglioramento nella sopravvivenza libera da recidiva in questo stadio più precoce di trattamento, ma anche perché si è osservato questo beneficio in tutti i sottogruppi di pazienti, inclusi quelli ad alto rischio di recidiva. I risultati si aggiungono al gruppo crescente di dati disponibili su ipilimumab, attualmente approvato alla dose di 3 mg/kg nel melanoma metastatico”. Nello studio, condotto in collaborazione con la European Organisation for Research and Treatment of Cancer, sono stati arruolati pazienti di Stati Uniti, Canada, Europa, Russia e Australia sottoposti a resezione completa del melanoma cutaneo in stadio 3, ad esclusione delle metastasi linfonodali ≤ 1 millimetro o metastasi “in transito”. I pazienti presentavano melanoma in stadio 3A (21%), 3B (45%) o 3C (35%); il 41% aveva melanoma primario con ulcerazione e il 56% coinvolgimento macroscopico dei linfonodi. I pazienti sono stati stratificati secondo stadio e regione interessata e randomizzati (1:1) a ipilimumab (10 mg/kg; n = 475) o placebo (n = 476) ogni 3 settimane per 4 dosi, quindi ogni 3 mesi per un periodo massimo di 3 anni fino a completamento della terapia, recidiva della malattia o tossicità inaccettabile. Endpoint primario dello studio era la sopravvivenza libera da recidiva, analizzata sulla popolazione ‘intent-to-treat’.
tnAcity: STUDIO DI FASE II/III DI nab-PACLITAXEL SETTIMANALE E GEMCITABINA O CARBOPLATINO VS GEMCITABINA O CARBOPLATINO COME TRATTAMENTO DI PRIMA LINEA NEL TUMORE MAMMARIO METASTATICO TRIPLO-NEGATIVO
Il carcinoma mammario metastatico triplo-negativo, caratterizzato da non espressione sulle cellule tumorali di recettori per estrogeni (ER), progesterone (PgR) e di HER2 (human epidermal growth factor receptor 2), è associato a una prognosi sfavorevole. In combinazione a gemcitabina o carboplatino e bevacizumab, albumin-bound(nab)-Paclitaxel ha mostrato elevati tassi di risposta nel trattamento di prima linea del tumore mammario metastatico triplo-negativo. Lo studio tnAcity (triple-negative Albumin-bound paclitaxel combination international treatment study) di fase II/III, presentato al 50° congresso annuale ASCO 2014 (leggi abstract), valuterà i profili di efficacia e sicurezza di due regimi di combinazione di nab-paclitaxel (con gemcitabina o carboplatino) come trattamento di prima linea per il carcinoma mammario metastatico triplo-negativo, utilizzando gemcitabina e carboplatino come controllo. Nella fase II dello studio, i ricercatori statunitensi ed europei (in Italia, il gruppo dell’Università di Padova) valuteranno 240 pazienti, dopo randomizzazione 1:1:1 (con stratificazione per intervallo libero da malattia [DFI]: ≤ 1 anno vs > 1 anno) a nab-paclitaxel (125 mg/m2) e gemcitabina (1000 mg/m2), nab-paclitaxel (125 mg/m2) e carboplatino (AUC, area sotto la curva, 2) o regime di controllo con gemcitabina (1000 mg/m2) e carboplatino (AUC 2), tutti somministrati ai giorni 1 e 8 di ogni ciclo di 21 giorni. I criteri di eleggibilità comprendono tumore mammario metastatico triplo negativo misurabile (definito come ER e PgR in < 1% del nucleo delle cellule tumorali e HER2, determinato con immunoistochimica 0 oppure 1+ oppure 2+ oppure FISH-negativo); nessuna precedente chemioterapia per la malattia metastatica; uso di antracicline in adiuvante/neoadiuvante, se indicato; trattamento adiuvante/neoadiuvante con taxano, platinoide o gemcitabina autorizzato, se completato ≥ 12 mesi prima della randomizzazione; performance status ECOG ≤ 1; neuropatia periferica di grado < 2 e assenza di metastasi cerebrali. Obiettivo primario della fase II dello studio è identificare il braccio di combinazione con nab-paclitaxel che dovrà essere valutato nello studio di fase III con l’uso di un algoritmo di ‘ranking’ a 5 parametri di efficacia e sicurezza. Nella fase III dello studio, saranno randomizzate (1:1) 550 pazienti (stratificate per DFI: ≤ 1 anno vs > 1 anno e precedente uso di taxano) al braccio di combinazione di nab-paclitaxel, selezionate dalla fase II dello studio, o al braccio di controllo. Endpoint primario della fase III dello studio tnAcity sarà la sopravvivenza libera da progressione (PFS), con valutazione radiologica indipendente, mentre endpoint secondari saranno il tasso di risposta obiettiva (ORR), la sopravvivenza globale (OS), il tasso di controllo della malattia, la durata della risposta e la sicurezza. Saranno inoltre condotte analisi dei biomarcatori e delle cellule tumorali circolanti. Alla data di presentazione dell’abstract per il congresso erano state randomizzate 21 pazienti.
STRATEGIA DI MANTENIMENTO CON FLUOROPIRIMIDINE E BEVACIZUMAB, SOLO BEVACIZUMAB O NESSUN TRATTAMENTO DOPO COMBINAZIONE STANDARD IN PRIMA LINEA DI FLUOROPIRIMIDINE, OXALIPLATINO E BEVACIZUMAB NEI PAZIENTI CON TUMORE METASTATICO DEL COLON-RETTO: STUDIO DI FASE III AIO KRK 0207, DI NON-INFERIORITÀ
La strategia ottimale per la terapia di mantenimento del tumore metastatico del colon-retto, dopo chemioterapia di combinazione e bevacizumab, è ancora oggetto di controversia. Lo studio AIO KRK 0207 ha esaminato se, dopo terapia standard di induzione per 24 settimane con la combinazione di fluoropirimidine, oxaliplatino e bevacizumab, non continuare oppure continuare con solo bevacizumab possano essere considerate alternative non-inferiori al trattamento con fluoropirimidine e bevacizumab. Nello studio, presentato al 50° congresso annuale ASCO 2014 (leggi abstract), sono stati arruolati pazienti con tumore metastatico del colon-retto che rispondevano ai criteri ‘standard’ di eleggibilità. Dopo 24 settimane di terapia di induzione con fluoropirimidine, oxaliplatino e bevacizumab, i pazienti che non mostravano progressione della malattia sono stati randomizzati in uno dei seguenti bracci: A) terapia standard di mantenimento con fluoropirimidine e bevacizumab; B) solo bevacizumab oppure C) nessun trattamento. La ri-induzione con il trattamento iniziale era stata pianificata alla prima progressione. Endpoint primario era il ‘tempo al fallimento della strategia’ (TFS), che comprendeva la terapia di mantenimento e la ri-induzione dopo la prima progressione. Le dimensioni del campione sono state calcolate (alfa a una coda = 0.0125; potere dell’80%) in modo da concludere lo studio con la non-inferiorità rispetto al braccio con fluoropirimidine e bevacizumab. Endpoint secondari includevano il tempo alla prima progressione (PFS1) e la sopravvivenza globale (OS). I ricercatori tedeschi hanno arruolato 840 pazienti, di questi 473 sono stati randomizzati. Il follow-up mediano è stato di 27 mesi. Dopo induzione, il 60% dei pazienti ha mostrato risposta completa (CR) o parziale (PR) e il 40% stabilizzazione della malattia (SD). La PFS1 mediana nei bracci A, B e C era rispettivamente 6.2, 4.6 e 3.6 mesi (p < 0.0001; A vs C: HR 2.11, IC 95%: 1.63 – 2.73; A vs B: HR 1.28, IC 95%: 0.99 – 1.65; B vs C: HR 1.56, IC 95%: 1.22 – 1.99). Il TFS favoriva il braccio A sul braccio C (HR 1.31, IC 95%: 1.01 – 1.69; p = 0.038), ma non è stata osservata differenza tra i bracci A e B (HR 1.04, IC 95%: 0.81 – 1.36; p = 0.74). Tuttavia, alla prima progressione solo il 24% dei pazienti nel braccio A e il 47% nei bracci B e C ha ricevuto la ri-induzione. Dopo 200 eventi documentati, la OS preliminare è risultata pari a 23.4 mesi dalla randomizzazione, senza differenze significative tra bracci di trattamento (p = 0.69). In conclusione, dopo 24 settimane di terapia di induzione, il mantenimento attivo con entrambi i trattamenti, fluoropirimidine e bevacizumab o solo bevacizumab, ha offerto un prolungamento del ‘tempo al fallimento della strategia’, rispetto a nessuna terapia. Solo un limitato gruppo di pazienti ha ricevuto il trattamento di ri-induzione come pianificato. Con questo follow-up, al momento limitato, le diverse strategie di mantenimento non hanno mostrato alcun impatto sulla sopravvivenza globale.
ANALISI AGGREGATA DI DUE STUDI DI FASE III: ERIBULINA MIGLIORA LA SOPRAVVIVENZA NEL CARCINOMA MAMMARIO IN STADIO AVANZATO HER2 NEGATIVO
I dati di un’analisi aggregata, presentata al 50° congresso ASCO (leggi abstract), confermano ulteriormente che eribulina migliora la sopravvivenza globale (OS) di pazienti affette da carcinoma mammario in stadio avanzato rispetto ad altre terapie standard. In particolare, è stato osservato un beneficio significativo in termini di OS nelle donne affette da carcinoma mammario negativo per il recettore 2 del fattore di crescita dell’epidermide umano (HER2) (15,2 vs. 12,3 mesi, HR=0,82 [IC 95%, 0,72-0,93]; p=0,002). Il beneficio è stato inoltre osservato in pazienti affette da carcinoma mammario negativo triplo (TNBC), ma non HER2 positivo. “L’eribulina è tuttora l’unica chemioterapia che dimostra di migliorare significativamente la sopravvivenza globale di pazienti affette da carcinoma mammario in stadio avanzato dopo il trattamento con antracicline e tassani in setting adiuvante o metastatico. Questi nuovi dati confermano chiaramente che le pazienti con carcinoma mammario in stadio avanzato traggono giovamento dall’eribulina. Il beneficio in termini di sopravvivenza globale osservato nelle pazienti affette da carcinoma mammario HER2 negativo e triplo negativo è particolarmente interessante, perché spesso queste pazienti sono sottoservite, con poche opzioni terapeutiche efficacia disposizione” ha commentato il Dott. Chris Twelves, Professore di Farmacologia clinica e Oncologia e Consulente onorario in Oncologia Medica presso l’Università di Leeds e l’Istituto oncologico St. James. Questa analisi aggregata, che rappresenta uno dei set di dati più ampio nel carcinoma mammario metastatico, ha esaminato i dati di due studi cardine di fase III relativi a oltre 1800 donne: lo studio EMBRACE (Eisai Metastatic Breast Cancer Study Assessing Treatment of Physician’s Choice Versus Eribulin) e lo studio 301. Questo studio richiesto dall’EMA ha rilevato che l’eribulina complessiva ha dimostrato un miglioramento statisticamente significativo dell’OS rispetto al controllo (15,2 vs. 12,8 mesi; HR=0,85 [IC 95%, 0,77-0,95]; p=0,003). Il beneficio in termini di OS è stato osservato anche in pazienti affette da carcinoma mammario triplo negativo (TNBC) (12,9 vs. 8,2 mesi, HR=0.74 [IC 95%, 0,60-0,92]; p=0,006), ma non in pazienti con carcinoma mammario HER2 positivo (13,5 vs. 12,2 mesi, HR=0,82 [IC 85%, 0,60-1,06]; p=0,135). Non sono state osservate differenze sostanziali dei dati di tollerabilità e sicurezza mostrati in precedenza negli studi EMBRACE e 301. L’analisi aggregata ha incluso dati dello studio EMBRACE e ha riguardato donne che hanno ricevuto 2-5 linee di chemioterapia per malattia in stadio avanzato. In questo setting di terza linea, le pazienti sono state randomizzate in rapporto 2:1 a ricevere eribulina (1,4mg/m2 per via ev i giorni 1 e 8 ogni 21 giorni) o la terapia stabilita dal medico curante. Il secondo studio nell’analisi aggregata (studio 301) ha incluso donne che hanno ricevuto 0-2 precedenti chemioterapie per malattia in stadio avanzato randomizzate in rapporto 1:1 a ricevere eribulina (schema posologico come nello studio EMBRACE) o capecitabina (1,25g/m2 per via orale due volte al giorno i giorni 1-14 ogni 21 giorni). La sopravvivenza globale è stata analizzata nella popolazione intent-to-treat (ITT) complessiva e nei sottogruppi in base a HER2 e allo stato del recettore ormonale.
Fonte ASCO
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Mauro Boldrini
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