Chicago, 1 giugno 2014
UN ALGORITMO PER CALCOLARE IL COSTO-BENEFICIO DEI NUOVI FARMACIUn algoritmo per ‘classificare’ i nuovi farmaci contro il cancro, innovativi ma dai costi sempre maggiori, sulla base di tre parametri precisi: benefici, effetti collaterali e prezzo. Lo sta sviluppando l’ASCO, con l’obiettivo di ridurre e tenere sotto controllo il costo complessivo delle terapie oncologiche, divenuto quasi insostenibile per i sistemi sanitari. Tutto ciò attraverso un approccio più attento alla prescrizione dei nuovi medicinali. Dal 50° Congresso ASCO, in corso a Chicago, il messaggio lanciato ai medici è infatti quello di considerare, al momento della prescrizione delle terapie, non solo l’impatto medico di un trattamento, ma anche quello finanziario, a fronte di una situazione complessiva mondiale di insostenibilità economica, che minaccia l’accesso alle cure oncologiche per le più ampie fasce di pazienti. Una svolta, anche culturale, che nasce da una considerazione pragmatica: nel 2013 la spesa globale per i farmaci anticancro ha toccato quota 91 miliardi di dollari, e cresce al ritmo del 5 per cento annuo. Il rischio è che i sistemi sanitari non reggano, e che, inseguendo miglioramenti a volte minimi, o addirittura nulli, su larga scala e a costi enormi, si privino i pazienti, che davvero potrebbero trarne beneficio, di terapie efficaci. “Il problema – ha sintetizzato Neal Meropol, primario di ematologia e oncologia al University Hospital Medical Center di Cleveland – è che il sistema attuale è insostenibile perché minaccia l’accesso alle cure innovative e di alta qualità contro il cancro”. Da qui uno strumento, l’algoritmo appunto, che i medici potranno usare per determinare quando i benefici di un farmaco non giustificano il suo costo. Il tema è delicato ma inevitabile, come ha spiegato il presidente AIOM, Stefano Cascinu: “È inutile produrre dei farmaci se poi nessuno li può comprare. Per questo è importante il cambio di orientamento qui all’ASCO, che tra l’altro non ha toni trionfalistici, non promette cure miracolose, ma si interroga su un tema che riguarderà sempre di più l’accesso alle cure in tutto il mondo”.
CRISI, CON FARMACI A CARICO DEI CITTADINI, AUMENTANO I RISCHI DI DISEQUITÀ. AIOM: “EFFETTI SULLA MORTALITÀ SI VEDONO GIÀ IN GB”
Con i nuovi farmaci oncologici inseriti nella classe Cnn, cioè già autorizzati ma non rimborsati dal SSN (non essendo ancora stato negoziato e definito il loro prezzo), il “rischio è quello di creare forti discriminazioni tra chi può curarsi e chi no”. A sottolinearlo, dal Congresso ASCO, è il presidente AIOM, Stefano Cascinu. La classe di farmaci Cnn, ha affermato Cascinu, “doveva essere provvisoria, ma ora il pericolo è che diventi permanente, creando potenzialmente delle discriminazioni tra i pazienti”. Già ora, ha affermato, “si vede come alcune aziende ospedaliere stiano decidendo di acquistare tali farmaci ed altre, invece, vi stiano rinunciando; una situazione che determina di fatto una condizione di disequità tra i malati e una violazione dell’articolo 32 della Costituzione”. Tuttavia, ha precisato il presidente AIOM, “per ora, in Italia, ancora sta tenendo il sistema universalistico, e nel settore dell’oncologia non si sta verificando un abbandono delle cure come in altri ambiti”, dato segnalato anche dall’Istat nell’ultimo rapporto 2014. Ma il rischio rimane, e, in alcuni Paesi, è già una realtà: “In Gran Bretagna, ad esempio – ha concluso Cascinu – proprio la limitazione imposta per motivi economici all’accesso a farmaci e diagnosi già sta facendo registrare, per l’oncologia, un nuovo tasso di aumento della mortalità”.
TEST RICHIESTI DAI PAZIENTI ONCOLOGICI QUASI SEMPRE APPROPRIATI
Si ribadisce spesso che i trattamenti inappropriati costituiscono un problema in medicina, determinando un inutile aumento dei costi sanitari. Eppure molti dei test e delle terapie richieste dai pazienti oncologici sono perfettamente appropriati. Almeno, ciò è quanto risulta da una nuova ricerca presentata al Congresso ASCO. Il gruppo di studiosi – guidato da Keerthi Gogineni, oncologo all’Abramson Cancer Center di Philadelphia (Usa) – che ha tratto queste conclusioni si è basato su un sondaggio effettuato su 26 oncologi e infermieri dopo 2.050 visite a pazienti (età media: 60 anni) in trattamento o in fase terminale. In 177 visite, i pazienti avevano richiesto un test o un trattamento. Gli autori dello studio hanno quindi rianalizzato questi casi per verificare quanto spesso i pazienti richiedessero test o trattamenti non appropriati in base alle specifiche diagnosi. Tali richieste includevano esami del sangue o imaging, farmaci sperimentali o trial clinici. I risultati hanno evidenziato che l’80% delle volte le richieste avanzate dal paziente sono state ritenute appropriate dal clinico. In circa il 18% dei casi (pari a 32 visite su 177) il medico non ha accettato le richieste del paziente: nell’84% di questi casi (27 su 32) ciò era dovuto al fatto che il testo o il trattamento appariva inappropriato o non apportatore di benefici. “I risultati di questa survey aiutano a ridimensionare molte delle idee sbagliate riguardo le pretese dei pazienti che portano alla prescrizione di test e trattamenti non necessari, a loro volta fonte dei più alti costi per la sanità Usa” ha commentato Gogineni. “Questi dati suggeriscono invece che gli oncologi e gli infermieri non sono guidati per la maggior parte del tempo da pazienti che vogliono siano impiegate cure di basso valore ma di alto costo. I provider piuttosto incorporano i desiderata degli assistiti all’interno di un piano d’azione percorribile”. Lo dimostra una cifra inequivocabile emersa dallo studio: la quota dei medici che hanno prescritto un test o un trattamento inappropriato si è attestata a un livello inferiore all’1% delle visite (4 su 2.050).
ANALISI DI SOPRAVVIVENZA GLOBALE ED EFFETTO PROGNOSTICO DI NLR E CA19-9 DELLO STUDIO DI FASE III MPACT DI nab-PACLITAXEL E GEMCITABINA VS GEMCITABINA IN PAZIENTI CON TUMORE METASTATICO DEL PANCREAS
Nello studio MPACT di fase III, l’associazione di nab-paclitaxel e gemcitabina ha mostrato una migliore sopravvivenza globale (endpoint primario, OS; mediana: 8.5 vs 6.7 mesi, HR 0.72; p < 0.001) rispetto a sola gemcitabina, accompagnata da tossicità controllabile, in pazienti con tumore metastatico del pancreas. Le analisi primarie erano basate su un cut-off del 17 settembre 2012, momento in cui l’80% dei pazienti era deceduto. In questo studio, i ricercatori australiani, canadesi, europei (in Italia, i gruppi dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano e dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Università di Verona) e statunitensi presentano al 50° congresso annuale ASCO 2014 (leggi abstract) i risultati dell’analisi aggiornata di OS (post hoc) e una valutazione dei pazienti con elevato quoziente neutrofili:leucociti (NLR) o CA19-9, due marcatori noti di prognosi sfavorevole, al momento basale. In totale, 861 pazienti con carcinoma metastatico del pancreas e performance status di Karnofsky ≥ 70 sono stati randomizzati (1:1) in 151 centri ospedalieri o accademici a nab-paclitaxel (125 mg/m2) + gemcitabina (1000 mg/m2), ai giorni 1, 8 e 15 di ciascun ciclo di 28 giorni, oppure a gemcitabina (1000 mg/m2 alla settimana) per 7 settimane seguito da una settimana di sospensione (ciclo 1) e quindi ai giorni 1, 8 e 15 di ciascun ciclo di 28 giorni (cicli ≥ 2). I dati per l’analisi della OS sono stati raccolti fino al 9 marzo 2013. I valori basali di NLR e CA19-9 sono stati misurati in campioni ematici raccolti prima del trattamento. Al nuovo cut-off aggiornato dei dati, 380 dei 431 pazienti (88%) nel braccio con nab-paclitaxel+gemcitabina e 394 di 430 pazienti (92%) nel braccio con sola gemcitabina erano deceduti. Nella popolazione ‘intent-to-treat’ (ITT), la OS è risultata superiore nel braccio con nab-paclitaxel e gemcitabina e il follow-up più lungo ha permesso l’identificazione dei sopravviventi a > 3 anni nel braccio con nab-paclitaxel e gemcitabina: i tassi di OS a 6 mesi erano 66 vs 55%, nel braccio nab-paclitaxel+gemcitabina vs gemcitabina; a 12 mesi erano rispettivamente 35 vs 22%; a 24 mesi rispettivamente 10 vs 5%, mentre a 42 mesi erano 3 vs 0%. In un’analisi combinata di trattamento e bracci, un NLR ≤ 5 è stato associato a una OS più lunga vs un NLR > 5 (mediana 9.1 vs 5.0 mesi; HR 1.839; p < 0.001). La OS mediana è risultata più lunga con nab-paclitaxel+ gemcitabina, rispetto a sola gemcitabina, nei pazienti con un NLR > 5 (5.6 vs 4.3 mesi; p = 0.079), e con CA19-9 ≥ 59 volte il limite superiore del range di normalità (ULN) (8.4 vs 5.7 mesi; p < 0.001). In conclusione, i dati aggiornati confermano l’effetto del trattamento a favore della combinazione di nab-paclitaxel e gemcitabina, rispetto a sola gemcitabina, in termini di sopravvivenza globale. Un ulteriore allungamento del follow-up ha permesso di identificare i lungo-sopravviventi nel braccio con nab-paclitaxel+gemcitabina. La sopravvivenza globale migliore nei pazienti trattati con nab-paclitaxel e gemcitabina che presentavano un NLR > 5 o un elevato CA19-9 supporta il beneficio relativo della combinazione, anche nei pazienti con marcatori di prognosi sfavorevole.
STUDIO DI FASE III SU LENVATINIB, MIGLIORAMENTI DELLA SOPRAVVIVENZA LIBERA DA PROGRESSIONE IN PAZIENTI CON TUMORE DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE REFRATTARIO AL RADIO-IODIO
Lo studio di Fase III SELECT su lenvatinib (E7080), che sarà presentato domani (leggi abstract) in sessione plenaria al 50° Congresso ASCO, ha esaminato la sopravvivenza libera da progressione (PFS) di pazienti affetti da tumore differenziato della tiroide refrattario allo iodio radioattivo (RR-DTC). Grazie a lenvatinib la PFS mediana è aumentata in modo significativo a 18,3 mesi rispetto a 3,6 mesi con il placebo (HR=0,21, [IC 99%, 0,14-0,31]; p<0,0001). Il beneficio statisticamente significativo in termini di PFS ottenuto con lenvatinib è stato confermato in tutti i sottogruppi predefiniti dello studio. Lenvatinib è un inibitore orale di vari recettori della tirosin-chinasi (RTK), con una nuova modalità di binding che inibisce in modo selettivo le attività chinasiche dei recettori del fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF), oltre che di altri RTK correlati alle vie proangiogenica e oncogenica coinvolti nella proliferazione tumorale. “Questi risultati dimostrano il beneficio di lenvatinib in questo raro tumore difficile da trattare. La scoperta di un trattamento con risultati di fase III positivi per questa forma aggressiva di carcinoma tiroideo, per il quale esistono attualmente solo opzioni limitate, è di grande interesse sia per i medici sia per i pazienti in tutto il mondo” ha commentato Martin Schlumberger, sperimentatore principale e medico presso l’Istituto Gustave Roussy, Università di Parigi Sud. Lo studio SELECT (Study of (E7080) LEnvatinib in Differentiated Cancer of the Thyroid) è una sperimentazione di Fase III multicentrica, randomizzata, in doppio cieco, controllata con placebo, volta a confrontare la PFS di pazienti affetti da RR-DTC ed evidenze radiologiche di progressione della malattia nei 13 mesi precedenti, trattati con una dose orale una volta al giorno di lenvatinib (24mg) rispetto al placebo. Nello studio, sono stati arruolati 392 pazienti in oltre 100 centri in Europa, Nord America e Asia. I partecipanti sono stati stratificati in base all’età (≤65 o >65 anni), la regione e il numero (≤1) di terapie mirate al VEGFR e sono stati randomizzati con un rapporto 2:1 a lenvatinib o placebo (24 mg/die, ciclo di 28 giorni). L’endpoint primario era la PFS, valutata mediante revisione radiologica indipendente. Gli endpoint secondari dello studio includevano il tasso di risposta globale (ORR), la sopravvivenza globale (OS) e la sicurezza. I tassi di risposta completa erano pari al 2% nel gruppo lenvatinib e zero nel gruppo placebo. I risultati per la risposta parziale erano del 63% nel gruppo lenvatinib e del 2% nel braccio placebo. La durata mediana dell’esposizione era di 13,8 mesi per lenvatinib e di 3,9 mesi per il placebo; il tempo mediano alla risposta per lenvatinib era di 2,0 mesi. I cinque eventi avversi correlati al trattamento (TRAE) più comuni di lenvatinib, di qualsiasi grado, erano ipertensione (69,3%), diarrea (66,3%), inappetenza (53,3%), calo ponderale (50,6%) e nausea (46,4%). I TRAE di grado ≥3 includevano ipertensione (42,5%), calo ponderale (11,9%), proteinuria (10%), diarrea (8,4%), astenia (5,7%) e inappetenza (5,7%).
COMPARAZIONE DELLA TERAPIA ADIUVANTE CON INIBITORE DELLE AROMATASI EXEMESTANE VS TAMOXIFENE, CON SOPPRESSIONE DELLA FUNZIONE OVARICA, IN DONNE IN PREMENOPAUSA CON TUMORE MAMMARIO INIZIALE POSITIVO AI RECETTORI ORMONALI: ANALISI CONGIUNTA DEGLI STUDI TEXT E SOFT DI IBCSG
Vi era molta attesa a Chicago per i risultati della plenaria durante l’ASCO, soprattutto per la presentazione dei dati che riguardano il trattamento adiuvante nelle pazienti in premenopausa. L’International Breast Cancer Study Group (IBCSG) ha presentato l’analisi combinata dei due studi TEXT e SOFT, i cui risultati vengono pubblicati contemporaneamente online su New England Journal of Medicine. Il trattamento con examestane insieme allla soppressione ovarica riduce il rischio di sviluppare una malattia metastastica del 34% confrontato al trattamento standard con tamoxifene e soppressione ovarica. “Questi risultati – commenta il prof. Saverio Cinieri, Direttore dell’Oncologia Medica & Breast Unit dell’Ospedale Perrino di Brindisi – sono molto interessanti, relativamente alle giovani donne che sono state operate per un carcinoma della mammella endocrino responsivo e ci forniscono una nuova e più efficace opzione terapeutica, con una qualità della vita sicuramente in linea con i risultati ottenuti nelle pazienti in post menopausa. Gli studi SOFT e TEXT hanno arruolato rispettivamente 2672 e 3066 donne in 500 istituti e in 27 Paesi e questi dati sono i primi derivati da questi importanti lavori e messi a disposizione della comunità scientifica”. La terapia endocrina adiuvante con inibitore delle aromatasi vs tamoxifene migliora gli ‘outcome’ nelle pazienti con tumore mammario, positivo ai recettori ormonali (HR), in post-menopausa. Gli studi TEXT e SOFT sono stati disegnati per esaminare se la terapia adiuvante con inibitore delle aromatasi migliori gli ‘outcome’ in donne con tumore mammario, HR-positive, in pre-menopausa sottoposte a soppressione della funzione ovarica (OFS) (quesito AI) e per determinare il valore di OFS nelle donne che rimangono in pre-menopausa e sono eleggibili alla terapia adiuvante con tamoxifene (quesito OFS). Negli studi randomizzati, di fase III, TEXT e SOFT, sono state arruolate 5738 donne in pre-menopausa con tumore mammario iniziale, ER-positivo, tra novembre 2003 e aprile 2011 (2672 in TEXT e 3066 in SOFT). Nello studio TEXT, le donne sono state randomizzate entro 12 settimane dalla procedura chirurgica a exemestane e OFS vs tamoxifene e OFS, per 5 anni; la chemioterapia (CT) era opzionale e concomitante a OFS. Nello studio SOFT, le donne sono state randomizzate a exemestane e OFS vs tamoxifene e OFS vs solo tamoxifene per 5 anni, entro 12 settimane dalla procedura chirurgica se la CT non era stata pianificata oppure entro 8 mesi dal completamento della CT (neo)adiuvante. La OFS era a scelta tra triptorelina per 5 anni, ooforectomia e irradiazione dell’ovaio. Endpoint primario era la sopravvivenza libera da malattia (DFS, con randomizzazione fino a recidiva invasiva locale, regionale o a distanza oppure alla mammella contro-laterale, secondo tumore o morte). Per la bassa percentuale di eventi, nel 2011 sono stati apportati emendamenti al protocollo, che hanno modificato i piani dell’analisi per rispondere al quesito AI (exemestane + OFS vs tamoxifene + OFS) con un’analisi congiunta degli studi TEXT e SOFT. Entro il terzo trimestre 2013, con un follow-up mediano > 5 anni, erano previsti 436 eventi di DFS che davano un potere dell’84% con HR = 0.75 con exemestane + OFS vs tamoxifene + OFS (alfa = 0.05, log rank stratificato a due code). A un follow-up mediano di 5.7 anni, i ricercatori dei due studi TEXT e SOFT e dell’International Breast Cancer Study Group (IBCSG) (in Italia, i gruppi dell’Istituto Europeo di Oncologia e IBCSG di Milano e dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo) avevano registrato 514 eventi di DFS (11%) nella popolazione ‘intent-to-treat’ (ITT) comparando i due trattamenti exemestane + OFS (n = 2346) vs tamoxifene + OFS (n = 2344). Nello studio (leggi abstract), le pazienti trattate con exemestane e OFS hanno mostrato una riduzione significativa del rischio di DFS (HR = 0.72, IC 95%: 0.60 – 0.86; p = 0.0002), rispetto a tamoxifene e OFS; la DFS a 5 anni è risultata rispettivamente pari al 91.1 e 87.3%. Riduzioni simili sono state registrate per gli endpoint secondari di intervallo libero da tumore mammario (BCFI, HR = 0.66, IC 95%: 0.55 – 0.80; BCFI a 5 anni: 92.8 vs 88.8%) e di intervallo libero da recidiva a distanza (HR = 0.78, IC 95%: 0.62 – 0.97), ma non per la sopravvivenza globale (HR = 1.14, IC 95%: 0.86 – 1.51) con questo follow-up iniziale (194 decessi, 4%). Eventi avversi specifici di grado 3 – 4 sono stati riportati nel 31% delle pazienti trattate con exemestane e OFS vs 29% di quelle con tamoxifene e OFS. In conclusione, nelle donne in pre–menopausa con tumore mammario HR-positivo, il trattamento adiuvante con exemestane e OFS ha significativamente ridotto il rischio di recidiva rispetto a tamoxifene e OFS.
IMPATTO SULLA SOPRAVVIVENZA GLOBALE DELLA TERAPIA CHEMIO-ORMONALE VS ORMONALE NEL TUMORE PROSTATICO METASTATICO ORMONO-SENSIBILE DI NUOVA DIAGNOSI: STUDIO RANDOMIZZATO DI FASE III CONDOTTO DA ECOG
Docetaxel migliora la sopravvivenza globale (OS) nei pazienti con tumore metastatico della prostata che hanno mostrato progressione durante terapia da deprivazione androgenica (ADT). I ricercatori statunitensi hanno valutato il beneficio della chemio-ormonoterapia ‘upfront’ per il tumore metastatico della prostata. Nello studio, presentato al 50° congresso annuale ASCO 2014 (leggi abstract), hanno randomizzato (1:1) i pazienti a sola ADT oppure ad ADT e docetaxel (75 mg/m2 ogni 3 settimane per 6 cicli entro 4 mesi dall’inizio di ADT). I fattori di stratificazione erano: malattia molto estesa (‘high volume’, HV, con metastasi viscerali e/o 4 o più metastasi ossee) vs poco estesa (‘low volume’, LV); uso di anti-androgeni per più di 30 giorni; età ≥ 70 vs < 70 anni: PS ECOG 0 – 1 vs 2; precedente ADT adiuvante > 12 vs ≤ 12 mesi; somministrazione di farmaco approvato da FDA per ritardare gli eventi scheletrici. Criteri chiave di eleggibilità erano: funzione d’organo e neurologica adeguata per l’uso di docetaxel; ADT adiuvante ≤ 24 mesi e nessuna progressione entro 12 mesi di ADT adiuvante. La sopravvivenza globale (OS) era l’endpoint primario e il potere dello studio era tale per rilevare un miglioramento del 33.3% della OS mediana (potere dell’80% e alfa a una coda = 2.5%). La OS mediana prevista per sola ADT era di 33 mesi nei tumori HV e di 67 mesi in quelli LV. In totale, sono stati arruolati 790 pazienti tra il 28 luglio 2006 e il 21 novembre 2012: 393 con sola ADT e 397 con ADT e docetaxel. I fattori demografici, stratificazione e malattia erano bilanciati nei due gruppi di pazienti. L’età mediana era 63 anni (range: 36 – 91); il 98% presentava PS ECOG compreso tra 0 e 1; l’89% era di razza caucasica; il 24% aveva ricevuto radioterapia; il 24% si era sottoposto a prostatectomia; malattia HV era presente nel 64% dei pazienti trattati con sola ADT e nel 67% di quelli trattati con ADT e docetaxel. I dati sono stati resi disponibili dopo la quarta analisi ad interim a settembre 2013, quando il limite superiore di O’Brien Fleming è stato superato con il 53.1% delle informazioni. Questa presentazione riporta i dati aggiornati al 16 gennaio 2014 relativi a un follow-up mediano di 29 mesi, con 137 decessi tra i pazienti trattati con sola ADT vs 104 decessi tra quelli in trattamento con ADT e docetaxel. Gli eventi avversi nei pazienti trattati con ADT e docetaxel erano neutropenia febbrile di grado 3-4 (4%-2%), neuropatia di grado 3 (sensoriale e motoria entrambi 1%), un decesso a causa del trattamento (nessuno tra i pazienti con sola ADT). L’analisi sulla popolazione ‘intent-to-treat’ (ITT) ha evidenziato una percentuale maggiore di pazienti trattati con ADT e docetaxel con bassi livelli di PSA a 12 mesi (9.4 vs 19.7%, rispettivamente con ADT vs ADT e docetaxel; p < 0.0001) e una OS mediana più lunga nello stesso gruppo (popolazione ITT: 42.3 vs 52.7 mesi; p = 0.0006; malattia HV: 32.2 vs 49.2 mesi; p = 0.0012 e malattia LV: non raggiunta per entrambi i trattamenti). Dopo progressione della malattia, 123 pazienti in trattamento con sola ADT e 45 con ADT e docetaxel hanno ricevuto docetaxel. In conclusione, la combinazione di terapia anti-androgenica e docetaxel migliora la sopravvivenza globale, rispetto alla sola terapia anti-androgenica, nei pazienti con carcinoma prostatico metastatico molto esteso (HV). Un follow-up più lungo è tuttavia necessario per definire l’efficacia nei pazienti con malattia poco estesa (LV).
EFFETTO DELL’OBESITÀ IN PAZIENTI CON TUMORE MAMMARIO INIZIALE ER-POSITIVO IN PRE-MENOPAUSA: DATI EBCTCG SU 80000 PAZIENTI ARRUOLATE IN 70 STUDI
L’obesità (body mass index [BMI] ≥ 30 kg/m2) è normalmente associata a una prognosi più sfavorevole del tumore mammario in stadio iniziale. Ma questa associazione potrebbe dipendere potentemente dalla positività ai recettori per gli estrogeni (ER) e dall’attività ovarica (o dalla giovane età). I ricercatori dell’Università di Oxford, a nome dell’Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group (EBCTCG), hanno utilizzato le informazioni anonime delle pazienti con tumore mammario iniziale di qualsiasi studio, richieste periodicamente dall’EBCTCG, che includevano BMI (alla randomizzazione), stato ER, stato menopausale, età, trattamento, recidiva e morte e lo Steering Committee ha richiesto analisi degli effetti indipendenti di BMI sull’outcome’. I risultati di questo studio, presentato al 50° congresso annuale ASCO 2014 (leggi abstract), si basano sui dati cumulativi di 80000 pazienti (da 70 studi) disponibili, la maggior parte delle quali aveva anche quelli relativi a diametro del tumore e stato linfonodale. Il follow-up medio è stato di 8 donne-anno. La regressione di Cox (stratificata per studio e trattamento e aggiustata per età) ha valutato la rilevanza di BMI sulla mortalità con la recidiva (come surrogato per la rilevanza di BMI sulla mortalità per tumore mammario). Poche donne avevano BMI < 20 kg/m2 e i ‘cut-point’ standard WHO (World Health Organization) sono serviti a definire il sovrappeso (25 – 30 kg/m2). I risultati indicano che in 20000 donne con malattia a bassa espressione di ER esisteva scarsa associazione di BMI con la mortalità per tumore mammario e, comunque, nessuna associazione dopo aggiustamento per il diametro del tumore e lo stato linfonodale. In 60000 pazienti con malattia ER-positiva, il BMI è stato positivamente associato alla mortalità per tumore mammario nelle donne in pre/peri- e in post-menopausa (ciascun gruppo: 2p < 0.00001). Tuttavia, dopo aggiustamento per le caratteristiche del tumore, l’associazione è rimasta chiaramente significativa solamente nelle 20000 donne in pre/peri-menopausa con tumore ER-positivo (‘rate ratio’ di mortalità per tumore mammario che ha comparato BMI ≥ 30 kg/m2 vs BMI 20 – 25 kg/m2: RR = 1.34, IC 95%: 1.22 – 1.47; 2p < 0.00001, con un trend stabile per BMI < 25, 25 – 30, 30 – 35 e ≥35 kg/m2); una bassa associazione è rimasta, dopo aggiustamento, nelle 40000 donne in post-menopausa con malattia ER-positiva (RR = 1.06, IC 95%: 0.99 – 1.14; 2p = 0.12, eterogeneità tra RR: 2p < 0.0001). Nelle analisi riguardanti la malattia ER-positiva, suddivise per età (invece di utilizzare lo stato menopausale), l’obesità sembrava particolarmente rilevante solo a un’età di circa 55 anni. I risultati non erano sostanzialmente alterati anche escludendo i primi 5 anni di follow-up. In conclusione, nelle donne con tumore mammario iniziale, l’obesità sembra fortemente e indipendentemente correlata alla mortalità per tumore mammario solamente nelle donne con malattia ER-positiva in pre- e peri-menopausa.
Fonte ASCO
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Mauro Boldrini
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