Uno studio recentemente pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute (
leggi abstract originale) mostra che un trattamento più aggressivo del cancro alla vescica in fase precoce non prolunga la sopravvivenza o evita successive procedure intensive. Negli Stati Uniti, il cancro alla vescica è trattato con le cure più aggressive e costose, ed in assenza di evidenza che guidi le scelte terapeutiche gli urologi possono ampiamente variare il grado di intensità del trattamento della malattia in stadio precoce. I ricercatori dell’Università del Michigan ad Ann Arbor hanno utilizzato i database del Surveillance, Epidemiology, and End Results e Medicare per identificare i pazienti con diagnosi di cancro alla vescica in stadio precoce tra gennaio 1992 e dicembre 2002 (n = 20713) e il medico (‘provider’) responsabile del loro trattamento (n = 940). Hanno quindi selezionato i ‘provider’ in relazione all’intensità del trattamento somministrato ai pazienti, in termini di costi registrati in Medicare nei primi 2 anni dalla diagnosi, e li hanno suddivisi equamente in quattro gruppi. Sono state quindi determinate le associazioni tra intensità di trattamento e prognosi, inclusa la sopravvivenza a dicembre 2005 e la necessità di successivi trattamenti intensivi. La spesa media per paziente supportata da Medicare per i ‘provider’ nel quartile più alto (per intensità di trattamento) era più del doppio di quella nel quartile più basso (rispettivamente 7131$ vs 2830$). I ‘provider’ di trattamento ad alta intensità hanno più frequentemente utilizzato controlli endoscopici, terapie intravescicali e metodiche strumentali rispetto a quelli che fornivano trattamenti a bassa intensità. Tuttavia, l’intensità del trattamento iniziale non era associata a più basso rischio di mortalità (hazard ratio di morte per ogni causa nei pazienti sottoposti a trattamento a bassa vs alta intensità = 1.03; intervallo di confidenza: 0.97-1.09) e il trattamento intensivo iniziale non ha evitato l’utilizzo di altri interventi in una fase successiva. Infatti, una più alta proporzione di pazienti sottoposti a trattamenti più intensivi era maggiormente soggetta successivamente a interventi maggiori rispetto a quelli con trattamenti a bassa intensità (11% vs 6.4%; p = 0.02).