MEDICI, L’IMPORTANZA DI SAPER ASCOLTARE
A trenta anni di distanza dalla sua introduzione, la validità di tale modello scientifico è universalmente riconosciuta ed accertata. Questo ha permesso una profonda ridefinizione degli obiettivi delle politiche sanitarie, che hanno progressivamente incluso i fattori umani e psicosociali nella pianificazione dei programmi di sanità pubblica. Tematiche quali l’aderenza terapeutica e la qualità della vita rappresentano, allo stato attuale, autentiche priorità sanitarie, delineando nuovi ambiti e nuove necessità di integrazione tra gli aspetti biomedici dell’assistenza e le dimensioni psicologiche e sociali dell’intervento medico.
Aderenza alla HAART e soggettività/soddisfazione del paziente
Nella pratica medica, è esperienza clinica corrente constatare che “utenti soddisfatti” ed “utenti insoddisfatti” esprimono comportamenti diversi nei confronti dell’offerta sanitaria erogata. E’ altrettanto noto che il livello di soddisfazione influenza anche l’interazione del paziente con l’organizzazione sanitaria e con le prescrizioni mediche ricevute. Più il paziente è soddisfatto, migliore sarà l’aderenza al trattamento, con la conseguente riduzione dei costi sociali e sanitari associati al fallimento dell’azione medica. In questa dinamica, l’organizzazione del rapporto interpersonale assume una particolare importanza. I pazienti sono molto attenti a come vengono trattati dal medico ed utilizzano il loro parametro di soddisfazione per giudicare ed operare inferenze sulla qualità globale delle cure che ricevono. Si osserva talvolta che i pazienti costruiscano la loro valutazione soggettiva di qualità della cura sulla base di aspettative ed idee disfuzionali ed irrealistiche. Alcuni pazienti possono, ad esempio, sovrastimare i poteri di determinate terapie o aspettarsi da un farmaco sperimentale la totale guarigione. Naturalmente, il grado di soddisfazione del paziente varierà nella misura in cui il medico saprà riconoscere ed incontrare ciò che il paziente cerca, desidera e si aspetta. In questa prospettiva, il rischio di insoddisfazione si ridurrà quando (e se) il medico saprà trattare e rimuovere tutto ciò che di irrealistico o disfunzionale il paziente attende. E’, infatti, precisa responsabilità del medico recepire ed orientare le aspettative del paziente, concorrendo – attraverso questo processo – ad una continua ridefinizione degli standard assistenziali, personalizzandoli ed adattandoli ai bisogni reali dei pazienti. Ciò che è invece avvenuto per tanto tempo è esattamente il contrario: nonostante l’evidenza di una mutualità del rapporto, molta cultura medica continua a credere che sia il paziente a doversi adattare allo standard assistenziale, alla cura o – in definitiva – al volere/potere indiscutibile del medico.
Non sorprende, quindi, che “la soddisfazione del paziente” continui ad essere considerata da molti operatori sanitari come un accessorio desiderabile ma sostanzialmente marginale della professione medica. Probabilmente, se ciò non fosse avvenuto, non ci affanneremmo oggi a rintracciare il filo rosso che unifica i problemi della qualità della vita e quelli della bassa aderenza terapeutica, quelli del rapporto medico paziente e quelli della qualità degli interventi, temi tutti che rimandano all’importanza che, in un sistema sanitario avanzato, riveste l’elemento soggettivo.
Il paziente con infezione da HIV quale soggetto ed utilizzatore attivo del trattamento medico
Fatta eccezione per i casi in cui vi è un’emergenza/condizione che lo rende inerte, ogni paziente opera sui trattamenti, le prescrizioni, i dosaggi, le informazioni e le pratiche di cura una lunga serie di aggiustamenti. Tali aggiustamenti – propriamente o impropriamente agiti dal paziente – sono finalizzati a rendere il regime terapeutico compatibile con il proprio sistema abituale di riferimento, la propria condizione, il proprio progetto di vita, le proprie valutazioni soggettive di stato e malattia.
In oltre il 70% dei casi, i motivi che supportano i comportamenti di non aderenza (NA) ai trattamenti medici sono di natura intenzionale. La presenza di effetti collaterali dei farmaci spiega solo il 20% del fenomeno della NA. E’ interessante osservare che, nella maggior parte dei casi, il comportamento intenzionale di NA è legato a fattori legati alla presenza, nei pazienti, di condizioni, idee, aspettative e convinzioni preesistenti e/o socialmente costruite.
La conseguenza pratica di questo processo è che – a non occuparsi del paziente in quanto soggetto ed elaboratore attivo della contrattazione e dell’informazione sanitaria – la tanto citata “guardia” nella lotta all’epidemia si abbassa, e sia le cure mediche che gli interventi preventivi non raggiungono gli obiettivi sanitari prefissati.
Se il medico non conosce e non rimuove le false aspettative dal percorso di cura, il paziente continuerà ad utilizzare a modo suo la prescrizione medica, operando aggiustamenti, omissioni ed errori che possono avere un impatto devastante sulla reale efficacia della cura prescritta. Soprattutto, se si continua ad ignorare la presenza, nella vita di molti pazienti in HIV/AIDS, di condizioni quali la povertà, la patologia mentale e/o la tossicodipendenza, si renderà ingestibile anche il regime terapeutico più semplificato.
L’esperienza del Cotugno
In ottemperanza a quanto consigliato e scritto in innumerevoli documenti ufficiali, è stata realizzata una struttura sanitaria che fornisce assistenza psicologica, psichiatrica, sociale e tossicologica al paziente con infezione da HIV, che ha bisogno di essere accolto e curato, anche e soprattutto se è tossicodipendente, detenuto, immigrato e/o senza fissa dimora.
A volte, leggendo le flow-charts o le guide informative disponibili, restiamo perplessi nel constatare lo scarto esistente tra la nostra esperienza quotidiana dei bisogni dei nostri pazienti e l’immagine astratta – puramente idealizzata – che emerge da questionari, protocolli e consigli di cura. Linguaggi colti e raffinatezze burocratiche, protocolli farmacologici che considerano scontati i tre pasti al giorno ed il possesso di un frigorifero, interi manuali per illustrare la compilazione di un modulo e questionari esasperanti anche per il più colto dei pazienti. Questa è, attualmente, l’offerta italiana psicosociale e educativa per l’AIDS. Non è certamente questa, nella nostra esperienza, la realtà psicosociale dell’AIDS.
Forse pensare all’Africa come qualcosa che non è poi così lontano da certe realtà di San Francisco, potrebbe essere – come dimostra un recente studio condotto sull’aderenza alla HAART nei pazienti senzatetto americani – un buon esercizio e buona pratica. Meglio ancora sarebbe, nella nostra opinione, offrire al paziente con infezione da HIV dei programmi di assistenza psicosociale di efficacia sperimentata, fattivi e concreti.
Per questo, al Cotugno proviamo a realizzare programmi di ricerca/intervento che occupano professionisti provenienti da ambiti compositi e diversi. Nel nostro gruppo di lavoro, convivono – a titolo spesso volontario – educatrici e psicologi del lavoro, sociologi e psicoanalisti, counsellors ed esperti di infanzia ed adolescenza, terapeuti di coppia ed analisti di costi sanitari. Grazie a questa vivificante mescolanza di saperi, il Cotugno di Napoli è oggi uno dei pochi ospedali dove con uno screening all’ingresso, vengono valutati e prevenuti i fattori di rischio per i comportamenti violenti e/o suicidari dei pazienti in regime di ricovero, e che sperimenta, esattamente come si fa con i farmaci, modelli alternativi di assistenza e supporto psicosociale alle persone con infezione da HIV.