giovedì, 30 marzo 2023
Medinews
13 Giugno 2001

RAPPORTO SANITA’ 2001

La continuità assistenziale ha valenze preventive, curative di breve o lunga durata e riabilitative che non investono generalmente tutta la persona, ma si limitano ad organizzare interventi tecnici negli specifici ambiti nel rispetto dell’autonomia e della libertà del singolo. Non si deve infatti correre il rischio che un eccesso di proceduralizzazione della continuità assistenziale possa portare a degenerazioni di tipo burocratico. In questo campo vi è ancora una forte necessità di elaborazione teorica, per trovare l’equilibrio possibile tra il sogno malvagio di un sistema che pensa a tutto, ma prima ancora garantisce se stesso, e l’accettazione di una realtà organizzativa che di per sé non è strutturalmente e culturalmente preparata a garantire forme di assistenza non puntiforme.
Il Rapporto Sanità 2001 esplora i percorsi possibili della continuità assistenziale per garantire al malato un’impostazione adeguata dell’assistenza e quindi il massimo dei risultati conseguibili; in particolare quando il cittadino è caricato del peso di una malattia complessa e di lunga durata ed è povero sul piano economico, culturale e relazionale, la continuità diviene un obbligo imprescindibile per il servizio sanitario nazionale. Del resto va detto che per negare l’importanza di una organizzazione razionale e diffusa della continuità assistenziale non possono essere addotte motivazioni di carattere economico. Una quota capitaria di oltre 2.200.000 (2001) permette investimenti adeguati in quest’area purché le regioni non siano gravate di impegni impropri o limitate rispetto alla possibilità di adeguati risparmi; d’altra parte, un sistema organizzato potrebbe anche permettere di incanalare verso un uso corretto la mole di denaro che molti cittadini spendono direttamente per la propria salute.

Continuità e sistemi informativi

Il problema centrale è rappresentato dall’esigenza di raccogliere in modo organizzato tutte le informazioni necessarie per costruire una storia clinica del cittadino, comprendente sia gli interventi preventivi, sia gli eventi intercorrenti. La continuità nel percorso informativo è un elemento indispensabile per la continuità assistenziale.
Un supporto magnetico con informazioni di vario tipo e con forti potenzialità di servizio può diventare uno strumento indispensabile per il cittadino del prossimo futuro. Al di là della scelta dello strumento, è però altrettanto importante costruire un modello per la raccolta delle informazioni, in modo da evitare input sovrabbondanti o insufficienti.
Un aspetto non secondario della raccolta dati è rappresentato dalla ricerca di modalità ottimali per misurare i risultati ottenuti nel corso di un intervento, della sua conclusione o nella concatenazione di più interventi. Spesso gli outcome sono plurifattoriali (e quindi difficili da riassumere in un solo parametro: si veda ad esempio la misurazione della qualità della vita) e strettamente legati alla clinica (quindi relativi e non assoluti). La ricerca di indicatori sensibili e specifici diviene quindi importantissima per sottrarre la valutazione degli interventi alla tradizionale genericità che ha accompagnato gli interventi in ambito sanitario e socio-assistenziale. Ancor più difficile è la ricerca di indicatori complessivi in grado di misurare per unità di tempo i risultati di salute transitando attraverso servizi diversi.
Su questo tema si deve fare appello ad una forte iniziativa politica da parte del governo nazionale perché venga proposto un modello unico di raccolta dati

Continuità ed eventi clinici acuti

L’operatore sanitario gestore del fatto acuto (medico specialista, ospedale, 118, pronto soccorso) dovrebbe ricevere specifiche ed adeguate informazioni da chi sta a monte, al fine di organizzare l’intervento in modo razionale, senza il rischio che si accompagna a procedure espletate alla cieca.
Non sempre però gli operatori sanitari sono in grado per motivi diversi di esercitare la funzione di anello di collegamento anamnestico tra la storia precedente e l’intervento. In particolare, il servizio di guardia medica appare sempre più inidoneo rispetto a questa funzione; è quindi tempo di programmare una riforma del servizio.

Continuità all’interno dell’ospedale e tra ospedale e territorio

Nonostante numerose riflessioni teoriche e definizioni non è ancora completamente chiaro quale sia la vera identità dell’ospedale. Questa incertezza pesa sul quadro generale, perché oggi l’ospedale rappresenta ancora il principale punto fermo oggettivo e nell’immaginario collettivo per una risposta alla sofferenza e alla malattia.
All’interno dell’ospedale il problema più rilevante è rappresentato dalla definizione del ruolo del gestore del caso rispetto alla capacità di mantenere un quadro di valutazione unitario, integrando gli apporti interdisciplinari necessari per giungere a conclusioni diagnostiche e per impostare la terapia. Attualmente nella maggior parte degli ospedali sono operanti solo canali informali di comunicazione, esposti a mille rischi di ritardi, dimenticanze, imprecisioni, interpretazioni errate. L’adozione di cartelle computerizzate non ha finora avuto successo; nel frattempo sarebbe però possibile costruire procedure formalizzate, attorno alle quali ottenere il consenso dei vari segmenti dell’attività ospedaliera. In particolare sul piano clinico l’adozione di linee guida per specifici aspetti diagnostici e terapeutici è una garanzia di continuità e di serietà rispetto ad ogni atto. Infatti la drastica riduzione della durata delle degenze – imposta dalla introduzione dei Drg – rischia di produrre danni rilevanti alla qualità delle cure se il tempo disponibile non è utilizzato in maniera ottimale. La contemporanea adozione di procedure nei rapporti tra operatori con compiti diversi e di linee guida permetterebbe invece un significativo miglioramento del livello di continuità assistenziale. Un altro risultato dell’adozione delle linee guida (rilevante sotto il profilo dell’equità) è la garanzia per tutti i pazienti di continuità nelle attività diagnostiche e terapeutiche a prescindere dalla provenienza.
Superato il fatto acuto, un’adeguata continuità assistenziale si esprime anche nell’appropriatezza e nella rapidità delle decisioni riguardanti la fase post-dimissione. L’invio al domicilio, in strutture riabilitative, in reparti di lungodegenza o in Rsa richiede una definizione dei percorsi necessari a offrire continuità rispettivamente con il medico di medicina generale, con lo specialista di altri reparti ospedalieri o extra ospedalieri, con i medici delle comunità, nonché con le altre figure sanitarie che in questa fase ricoprono ruoli rilevanti nel processo di cura e di riabilitazione. Purtroppo la prassi diffusa è molto carente su questo piano. L’aspetto principale è rappresentato dalla formalizzazione della condizione clinica, in modo da mettere a disposizione del decisore dati precisi sui quali fondare la costruzione di un progetto di care condiviso dal medico ospedaliero e da quello che assumerà le nuove responsabilità di cura. Ovviamente, la disponibilità di linee guida che riducano almeno in parte la variabilità del processo decisionale sarebbe di grande importanza; in questi casi, tra realtà con un livello di autonomia spesso molto elevato, dovrebbe essere l’Azienda sanitaria locale a ricercare il consenso dei diversi attori. Un ulteriore dato di complessità del processo decisionale è rappresentato dalla difficoltà di distinguere con esattezza, rispetto ad un paziente fragile dimesso dall’ospedale, il ruolo di un reparto di lungodegenza da quello di un reparto ospedaliero di riabilitazione e da un istituto di riabilitazione geriatrica. Anche la scelta alternativa, seppure temporanea, tra Rsa e ritorno a casa con l’appoggio di un sistema di assistenza domiciliare integrata richiede un livello elevato di conoscenza delle condizioni del paziente e delle strutture di supporto formale ed informale che si possono prendere cura di lui.

Continuità e cronicità

Di fronte ai progressi della medicina che hanno permesso la sopravvivenza di persone con gravi problemi di salute, l’organizzazione di un sistema di continuità diviene indispensabile sia per ragioni cliniche (l’evoluzione di una malattia è un continuum che richiede conoscenze anamnestiche approfondite ed una guida terapeutica unitaria) sia per motivazioni umane ed organizzative (il paziente che deve frequentemente ricorrere ai servizi sanitari è particolarmente esposto a stress, a difficoltà interpretative sui percorsi da seguire, alle conflittualità o mancate sinergie di “pezzi” del sistema di cura). In queste condizioni la figura di un manager del caso sarebbe indispensabile, per ragioni umane e di efficacia clinica; l’esperienza insegna però che non sempre questa figura coincide con il medico di medicina generale, come sarebbe auspicabile se questi fosse messo nelle condizioni di poter esprimere al meglio la propria professionalità.
Uno degli interrogativi che in anni recenti ci si è posti in presenza di un ammalato cronico nelle diverse fasi della sua storia naturale è se sia opportuno o meno prevedere strutture assistenziali dedicate a specifiche patologie. Il problema chiave al proposito è se una serie di centri specialistici per singole patologie possa o debba sovrapporsi alle “normali” strutture del sistema sanitario; la risposta non è agevole. Sicuramente una migliore organizzazione dei sistemi telematici per la trasmissione dei dati potrebbe superare in un prossimo futuro queste difficoltà.
Un problema specifico nell’ambito della continuità assistenziale è rappresentato dalle Rsa: il livello di gravità clinico-assistenziale degli ospiti è divenuto progressivamente più pesante e il fenomeno non sembra aver ancora trovato un equilibrio. Il punto cruciale è la capacità di convincere la collettività che le Rsa non rappresentano una risposta senza speranza a condizioni umane e cliniche senza speranza. In quest’ambito la geriatria può svolgere un ruolo importante, perché ha dimostrato che nelle età avanzate, soprattutto nei molto vecchi, anche interventi limitati, purché mirati e specifici, possono portare a risultati di grande valore soggettivo ed oggettivo per la singola persona anziana. Nelle strutture residenziali gli interventi sono invece spesso settoriali e mancano modelli complessivi e generalizzabili; è quindi necessario procedere attraverso sperimentazioni che, con prudenza e pazienza, permettano di avvicinarsi ad un modello rispettoso della dignità umana, gestibile a costi controllati.

Continuità e sistemi di remunerazione

A livello internazionale, soprattutto negli Usa, sono state adottate varie modalità per remunerare le prestazioni sanitarie caratterizzate da continuità; l’esperienza insegna che questo aspetto è cruciale rispetto alla possibilità di aiutare o ostacolare un sistema razionale ed equo di continuità. Un criterio centrato sulla remunerazione della singola prestazione (fee for service) tende a spezzettare la catena degli eventi e gli operatori sono talvolta indotti a comportamenti inficiati dalla possibilità o meno di ottenere una remunerazione. Anche in questo caso è importante l’emanazione di linee guida condivise tra chi paga e chi prescrive, in modo che quest’ultimo si senta coperto anche in presenza di una spesa elevata per un singolo paziente.
Un diverso criterio orientato alla remunerazione forfettaria annua per patologia, a prescindere dai singoli eventi clinici (managed care), può favorire una migliore collaborazione tra i diversi attori della cura, ma espone al rischio che il soggetto gestore autorizzi o meno determinate prestazioni in ragione di problemi di equilibrio economico, o sia portato ad assumersi o rifiutare la gestione di un caso in base alla possibilità o meno di trarne un guadagno.
Purtroppo nel nostro paese si è dedicata scarsa attenzione a questi problemi, affidandosi a manovre di tipo generale che non hanno portato né ad un reale controllo della spesa né alla proposta di soluzioni praticabili per la gestione razionale della continuità assistenziale. L’abolizione del fondo sanitario e l’affidamento alle regioni di ogni responsabilità nell’allocazione delle risorse – in assenza di chiari modelli di riferimento – rischia di produrre comportamenti errati soprattutto nelle aree meno organizzate, con grave detrimento per i cittadini più bisognosi di cure. Anche l’introduzione di fondi sanitari integrativi avrà un ruolo importante, perché potrebbero farsi carico di aspetti specifici, seppure limitati, della continuità assistenziale.

Conclusioni

Il recente dibattito sulle liste d’attesa ha messo in luce alcuni degli aspetti più rilevanti per le problematiche della continuità assistenziale. Infatti l’appropriatezza o meno della richiesta di prestazioni e il ritardo nella esecuzione di prestazioni clinicamente rilevanti sono aspetti centrali per l’organizzazione di un sistema di continuità assistenziale moderno, il quale deve misurarsi anche con la crescita della nuova domanda di salute. L’aumento esponenziale della domanda avvenuta in questi anni recenti deve far ripensare a quanta parte non sia motivata da un reale stato di malattia; ogni intervento di controllo rischierebbe però di essere inutilmente repressivo al di fuori di seri piani per organizzare la continuità assistenziale. Al contrario, questi potrebbero rappresentare per il medico uno
strumento “difensivo” e alternativo rispetto a quello tradizionale di chiedere il massimo in termini diagnostici per evitare i rischi – anche giuridico-assicurativi – indotti da possibili complicanze del paziente. Un rapporto forte tra cittadino alla ricerca di risposte ed un sistema che ne conosce ed interpreta i bisogni può essere in grado di conseguire risparmi sostanziali, perché restringe il margine di inappropriatezza sul piano della realtà clinica e perché riduce il ricorso ai servizi per controllare le ansie ed i timori determinati dalla solitudine di fronte all’ignoto o all’incerto.
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