mercoledì, 29 novembre 2023
Medinews
1 Gennaio 2001

I MODERNI TRATTAMENTI CHIRURGICI DEL TUMORE DEL SENO

Il trattamento di questa neoplasia è rimasto invariato per quasi un secolo. Molta strada è stata percorsa da quando, un chirurgo americano, alla fine dell’Ottocento, dimostrò che il tumore del seno non era assolutamente una malattia incurabile, ma che anzi molte donne, se sottoposte ad intervento chirurgico, potevano guarire definitivamente.
L’intervento proposto da Halsted consisteva nell’asportazione di tutta la ghiandola mammaria, dei muscoli grande e piccolo pettorale e dei linfonodi ascellari.
Vi furono indubbiamente dei buoni risultati, alcune donne guarirono e i chirurghi, forti di questi successi, nel tentativo di offrire maggiori possibilità di sopravvivenza, proposero interventi ancora più demolitivi che comportavano l’asportazione dei linfonodi situati sotto la clavicola o lateralmente alla stessa.
In termini di sopravvivenza i risultati furono abbastanza deludenti. Infatti molte donne, anche a breve termine, morivano non tanto perché la malattia si ripresentasse localmente ma per la diffusione ad altri organi, le cosiddette metastasi a distanza.
Bisogna arrivare agli inizi degli anni Sessanta, quando, grazie ai progressi ottenuti sia nella ricerca di base che nella ricerca clinica, si sono rese disponibili nuove informazioni sulla storia naturale del carcinoma mammario che dimostrarono come questa neoplasia potesse essere, sin dal suo esordio, nel 50% dei casi di tipo sistemico.
Questi nuovi concetti hanno indotto nuove strategie terapeutiche. Da una parte la ricerca clinica si cimentò nel tentativo di distruggere eventuali focolai micrometastatici con terapie sistemiche: chemioterapie ed ormonoterapie; dall’altro, i chirurghi si sono resi conto dei limiti della chirurgia demolitiva e che in tumori piccoli, cioè tumori che non superavano i 3 cm, era possibile proporre alle donne interventi chirurgici conservativi.
L’intervento conservativo consisteva nell’asportazione non più di tutta la ghiandola mammaria, ma soltanto della parte dove è situato il tumore, associata sempre allo svuotamento di tutti i linfonodi del cavo ascellare, seguito a breve distanza dalla radioterapia per sterilizzare la ghiandola.
Si è così instaurato nel trattamento del tumore del seno un approccio multidisciplinare che ha visto coinvolti chirurgo, oncologo e radioterapista, consentendo di guarire di più demolendo di meno.
Negli ultimi 25-30 anni gli interventi conservativi sono andati aumentando grazie all’avvento e alla diffusione della mammografia, che se fatta dopo i 40 anni con regolarità, permette di reperire tumori sempre più piccoli e quindi passibili di intervento conservativo.
Riassumendo, si può dire che è possibile proporre interventi conservativi seguiti da radioterapia sulla mammella residua e da eventuale chemioterapia o ormonoterapia in tumori con diametro inferiore ai 3 centimetri. In caso invece di neoplasie superiori ai 3 centimetri, ancora oggi vi è l’indicazione all’intervento demolitivo con però la conservazione dei muscoli pettorali.
È degli anni Novanta la proposta degli oncologi ai chirurghi di sottoporre donne portatrici di neoplasie superiori ai 3 centimetri a chemioterapia primaria.
Con il termine chemioterapia primaria, o neoadiuvante, si intende l’utilizzo di un trattamento farmacologico antineoplastico prima della terapia chirurgica, che ha fondamentalmente due obiettivi:
• consentire una chirurgia conservativa laddove la dimensione iniziale del tumore richiederebbe l’intervento demolitivo;
• somministrare precocemente, non appena effettuata la diagnosi con esame citologico o istologico, un trattamento sistemico diretto contro la malattia micrometastatica nell’intento di aumentare la sopravvivenza.

I primi risultati chirurgici sono estremamente confortanti: è stato infatti dimostrato che nel 70-80% dei casi il tumore si riduce a tal punto da poter consentire un intervento di tipo conservativo, seguito da radioterapia sulla mammella residua. Non sono invece ancora disponibili i risultati relativi al secondo obiettivo. Si può quindi dire che la chemioterapia primaria o neoadiuvante rappresenta una nuova strategia terapeutica che di fatto inverte solo la sequenza chirurgia-terapia sistemica.
Un breve accenno ora ad una nuova tecnica chirurgica relativa allo studio del “linfonodo sentinella”, partendo però da alcune premesse estremamente utili per comprendere l’obiettivo di questa metodica.
• Sia gli interventi demolitivi che conservativi, comportano a tutt’oggi l’asportazione di tutti i linfonodi dell’ascella (I, II, e III livello).
• La valutazione istologica di questi linfonodi ci permette di sapere l’eventuale presenza di cellule tumorali maligne anche a questo livello.
• La diffusione di cellule tumorali dal tumore primitivo ai linfonodi ascellari avviene in modo regolare e progressivo, dal I al II livello e poi dal II al III livello. Il “salto” di livello è un evento raro (2-6% dei casi).
• Il rischio di metastasi ai linfonodi del cavo ascellare è correlato alle dimensioni del tumore. Se inferiore al centimetro è del 5-10%; se superiore a 5 centimetri questa possibilità arriva al 70%.
• A seconda del numero di linfonodi interessati da metastasi si possono instaurare dopo l’intervento terapie sistemiche diverse.

Da qualche anno esiste una metodica che permette di individuare con accuratezza il linfonodo espressione della prima stazione anatomica di drenaggio. Il linfonodo, dopo essere stato evidenziato, viene asportato ed inviato per esame istologico. La negatività del linfonodo (cioè l’assenza di cellule tumorali maligne) starebbe a significare in linea di massima la negatività anche dei rimanenti linfonodi ascellari.
A questo punto ci si è domandati che senso possa avere continuare, in caso di negatività del primo linfonodo, ed asportare i linfonodi rimanenti.
Date queste premesse sono stati avviati studi in cui questo nuovo approccio chirurgico viene proposto a donne con tumori di piccole dimensioni.
I primi risultati sono estremamente confortanti: se si confermerà la validità di questo nuovo approccio chirurgico, si potrà evitare – in caso di negatività del I linfonodo – lo svuotamento dei restanti.
Si avranno grandi vantaggi: degenza inferiore, decorsi postoperatori più rapidi e meno dolorosi, tasso di complicanze postoperatorie immediate e a distanza decisamente inferiore. Mi riferisco soprattutto alla sindrome del grosso braccio (il braccio del lato operato può gonfiarsi). Questa complicanza se non trattata precocemente e in modo adeguato può diventare per la donna estremamente invalidante.
Gli obiettivi principali delle attuali ricerche sono mirati da una parte ad evitare e curare le metastasi a distanza, dall’altra a rendere passibili interventi chirurgici più limitati e quindi più rispettosi dell’immagine corporea, non trascurando però la radicalità oncologica.

Per quanto riguarda la chirurgia plastica ricostruttiva, in questi ultimi anni sono stati ottenuti grandi successi.
Purtroppo il numero di donne che si sottoponevano, e che ancora oggi si sottopongono, ad intervento di ricostruzione dopo la mastectomia è molto basso. Le cause sono molteplici, e vanno da una scarsa e poco motivata informazione da parte del medico, alla carenza dei centri specializzati. Scopo della ricostruzione mammaria è di ricreare la forma naturale del seno nel tentativo di restituire l’integrità dell’immagine corporea.
Può essere eseguito contemporaneamente all’intervento chirurgico demolitivo, oppure a distanza nel tempo. In genere danno buoni risultati estetici, solo se eseguiti da mani esperte. È però importante che le pazienti sappiano che la ricostruzione completa della mammella (quindi compreso il capezzolo e l’areola), non si esaurisce con il solo intervento. A volte ne servono diversi, tenuto inoltre conto che, in alcuni casi, si rende necessario il rimodellamento dell’altro seno.
Nonostante l’intervento di ricostruzione sia un intervento su misura, personalizzato, le tecniche di cui i chirurghi plastici si avvalgono sono due.
1. quelle che utilizzano protesi
2. quelle che si avvalgono del trasferimento di lembi di tessuto delle pazienti stesse.
Per fugare qualsiasi timore è bene sapere che le protesi attualmente in commercio sono di ottima qualità, non sono pericolose, non inducono cancro e non limitano quindi i controlli routinari clinico-strumentali post-intervento.
La scelta della ricostruzione deve essere decisa solo dalla donna. Attenzione a sorelle, mariti, figli ed amici che dicono “vai bene così”. Una donna va bene se si sente bene e se lo desidera può recuperare completamente la sua immagine corporea.
È importante inoltre rivolgersi a centri specializzati, perché a volte possono essere peggiori i risultati di una chirurgia plastica non ben riuscita rispetto all’esito di un intervento chirurgico demolitivo.
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