DAL SUD AL NORD PER VINCERE IL CANCRO
Qui mi dissero che avevo un ‘fibrosarcoma alla spalla destra di natura neurogenica’. I dottori dell’ospedale decisero di operarmi, nonostante mi avessero dato solo due mesi di vita, perché il tumore pareva non estirpabile. Fecero anche firmare dei documenti a mio marito, che così acconsentiva all’amputazione del braccio. Invece l’arto mi venne risparmiato e io potei riabbracciare i miei bambini.
Dopo un anno ero ancora viva e tornai al Rizzoli per una visita di controllo. Il primario mi diede ancora di più fiducia nel futuro (…). Nel 1956, però, si formò di nuovo sotto il braccio un ingrossamento. Questa volta mio marito mi accompagnò a Roma, al Policlinico. Qui mi operarono di nuovo e mi tolsero il muscolo bicipite. Nel 1958 ancora una volta riapparve questo ammasso tumorale e ritornai al Policlinico, dove mi tolsero il muscolo brachiale (…).
Nel 1990 vivevo già a Torino da circa 30 anni e, a parte dei disturbi nervosi, stavo alquanto bene, considerato anche che avevo già 70 anni. Invece, nel febbraio di quell’anno accusai problemi di equilibrio e caddi anche per strada. Non avendo ricevuto una diagnosi dai dottori che mi avevano visitato, i miei famigliari mi fecero ricoverare all’ospedale Milinette. Dopo una serie di esami, mi venne riscontrato un neurinoma acustico, che nel frattempo mi aveva provocato l’idrocefalo: praticamente il liquido in cui era immerso il mio cervello non riusciva più a defluire e comprimeva le meningi. Fu così che persi anche conoscenza.
L’équipe medica del primario neurochirurgo di allora non si decideva a operarmi perché le mie condizioni fisiche parevano essere molto precarie e, soprattutto, perché l’operazione era difficilissima. Il neurinoma era localizzato vicino al cervelletto e al tronco encefalico. In aprile decisero per un intervento palliativo in cui mi inserirono in testa un catetere che avrebbe deviato nel peritoneo il liquido in eccesso che comprimeva il cervello. Almeno il problema dell’idrocefalo sarebbe stato risolto, anche se il tumore sarebbe rimasto lì e, quindi…non si sapeva che fine avrei fatto.
Non so se è stato un miracolo, ma una volta inserito il catetere io ripresi subito conoscenza. Con grande stupore dei medici mi rimisi in forze, tanto che un mese dopo, a maggio, venni anche dimessa. Da cinque anni ho ripreso la mia vita normale anche se sono sottoposta a controlli periodici e per strada voglio essere accompagnata. E pensare che già 45 anni fa mi avevano data per spacciata.
LA STORIA DI GRAZIANO
La prima volta che mi resi conto che H.D. (linfoma di Hodgkin) si era già insediato nel mio organismo, avevo circa 5 anni. Un pomeriggio d’estate, come tanti altri, ero andato a giocare con le mie due sorelline a casa di una zia. Mentre ci trovavamo in cortile a mangiare il gelato tutti insieme, una mia cugina si rivolse verso di me gridando: “Graziano ha le ghiandole nel collo”. Io non sapevo cosa fossero le ghiandole, pensai che si trattasse di un grosso ragno che passeggiava sul mio collo, per cui cominciai a piangere e buttai via il gelato.
Da quel momento (…) iniziò la mia tournée presso gli studi di diversi specialisti per cercare di capire di che cosa si trattava. Intanto H.D. continuava a occupare altri spazi del mio corpo. Per la maggior parte dei medici si trattava di ghiandole linfatiche benigne dovute ad una momentanea astenia e deficit immunitario.
Siamo nel 1975. Mi mandarono al mare per risolvere il problema, ma HD continuava a moltiplicarsi. Sul mio collo, lato sinistro, era ormai evidente un grosso grappolo di linfonodi. Dovetti aspettare sino agli 8 anni, quando il nuovo medico del paese, sospettando qualcosa, mi fece portare a Sassari per una visita ospedaliera. Dalla visita si passò all’immediato ricovero (…). Dopo qualche giorno fui trasferito nel padiglione di chirurgia per l’intervento chirurgico al collo.
All’inizio si doveva trattare di una semplice biopsia, ma durante l’operazione i chirurghi optarono, sbagliando, per ‘esportazione totale dei linfonodi più raschiatura muscolare’ deturpandomi il collo. Facendo, invece, solo la biopsia questo non sarebbe accaduto in quanto i linfonodi sarebbero scomparsi grazie alla radioterapia. ‘Odio’ ancora quei chirurghi. Il referto dell’esame istologico non tardò ad arrivare: linfoma di Hodgkin, varietà a cellularità mista, stadio 111 SA ‘ Se tutti i vari specialisti dai quali mi hanno portato i miei genitori avessero almeno sospettato qualcosa non sarei sicuramente arrivato ad otto anni con la malattia al III stadio.
Intanto HD continuava la sua corsa. I pediatri, non essendo in grado di curarmi bene, consigliarono ai miei genitori di portarmi all’Istituto Nazionale Tumori di Milano per le cure. Questa notizia fu un ulteriore shock per tutta la famiglia; in casa c’erano altri 2 fratelli e 2 sorelle piccoli. Non c’era tempo da perdere. Cosi, una volta effettuati i primi contatti con Milano per fissare la data del mio ricovero e sistemati i miei fratelli e sorelle presso parenti, presi l’aereo per la prima volta e partii con i miei genitori.
Per fortuna a Milano trovammo dei parenti e dei paesani che ci resero le cose molto più facili. Un impatto con una metropoli come Milano fu, soprattutto per mia madre, traumatizzante. lo, invece, mi trovai meglio: il reparto di Pediatria dell’Istituto era molto più accogliente dì quello di Sassari.
Mia madre viaggiava ogni giorno da Milano a Sannazzaro (PV) dove tuttora abita un mio zio materno, zio Peppino. All’epoca abitava in una cascina bianca. Per arrivarci bisognava prendere due treni e mamma aveva sempre paura di sbagliare. Mi descriveva sempre i bei campi verdi che si intravedevano dal treno, un verde particolare, diceva. lo non vedevo l’ora di fare quel viaggio con lei e un giorno, con il permesso dei medici, presi anch’io quel treno e potei così ammirare quei campi vastissimi colorati di un verde ‘speranza’. Speriamo che ‘là dove c’era l’erba, ora non ci sia una città’ (…)
Una sera sul tardi la dottoressa mi chiamò in infermeria perché voleva sapere dove rintracciare mia madre. Visto che mio’ zio abitava in cascina non fui in grado di fornire un indirizzo preciso, in più non c’era il telefono. Ripetevo solo una cosa: “Mia madre abita nella casa bianca”. Quello era l’unico indizio che, all’età di otto anni, potevo fornire. La dottoressa all’inizio non volle svelarmi il motivo per cui desiderava urgentemente parlare con mia madre ma, dopo le mie continue insistenza e con la promessa che non avrei pianto, mi disse: “Graziano, domani dobbiamo farti un piccolo taglietto”.
Non me lo avesse mai detto! Cominciai a piangere con tutte le mie forze e fuggii dall’infermeria per rifugiarmi nella sala d’aspetto del reparto a terminare il mio pianto.
Intanto mia madre aveva affittato una camera in una pensione di Milano per starmi più vicina. Alcuni paesani residenti in città avevano saputo della mia presenza in Istituto e vennero subito a trovarci, offrendoci poi ospitalità in casa loro, dandoci la possibilità di ritrovare un po’ del nostro ambiente e della nostra lingua, il sardo. Dopo l’intervento iniziai subito la chemioterapia, quindi tornai in Sardegna dove terminai il ciclo, di cure. Ritornai a Milano dopo qualche mese per sottopormi alla radioterapia.
Nel 1978, dopo 3 anni di guarigione, ebbi la prima ricaduta della malattia con la comparsa di un linfonodo a livello sottomandibolare. Una lieve recidiva che però mi costrinse a ripetere le classiche terapie. A scuola andavo abbastanza bene nonostante fossi costretto ad assentarmi tante volte per le visite di controllo o per le cure; purtroppo quando frequentavo la terza elementare persi l’anno.
Andai avanti senza problemi per 2 anni, quando improvvisamente nell’estate del 1980 iniziai a star male di nuovo; era la seconda ricaduta della malattia. HD si era ancora una volta manifestato sotto le sembianze di un grosso linfonodo localizzato sul lato destro del collo. Fui ricoverato a Sassari in condizioni pietose e poi trasferito a Milano: iniziate le cure incominciai a ristabilirmi così rapidamente che le mamme degli altri bambini ne rimasero meravigliate. Avevo 13 anni (…). Finita la terza media decisi di iscrivermi a ragioneria presso l’ITC di Nuoro (…). Dopo il diploma avevo intenzione di iscrivermi alla facoltà di Medicina, ma poi abbandonai l’idea poiché giudicai il percorso di studi per me troppo lungo (…). Spinto dalla mia passione per la medicina e dal desiderio di poter offrire il mio aiuto a tutte quelle persone che stavano vivendo una esperienza simile alla mia, decisi di iscrivermi a una scuola per infermieri professionali (…). La mia mente mi riportava sempre con i ricordi all’Istituto Tumori: il desiderio di poter fare il corso nell’ospedale che mi aveva accolto per tanti anni come paziente non mi dava tregua e così, per la serie ‘l’assassino torna sempre sul luogo del delitto’, riuscii a farmi ammettere alla Scuola per Infermieri Professionali dell’Istituto Tumori di Milano (…).
La situazione precipitò quando iniziai a star male senza riuscire a capire le cause del malessere (…). Nel settembre 1991, fui ricoverato per accertamenti. Si trattava della terza ricaduta della malattia, questa volta a livello intraddominale. HD si era risvegliato dal letargo. Per me fu uno shock. 1 due giorni successivi alla conferma della diagnosi mi sembrò di essere vittima di un incubo. di un brutto sogno e, pur conoscendo la verità, cercavo con tutte le mie forze di negarla.
lo vivevo una nuova esperienza, quella di un ex-paziente passato dall’altra parte, prima in infermeria come allievo infermiere, poi da infermiere a paziente, un paziente non come tutti gli altri. Grazie a Dio sono riuscito a reagire bene e a combattere ancora una volta contro HD, aiutato dal quel plotone d’esecuzione che si chiama chemioterapia (…).
Purtroppo il corso per infermieri professionale non l’ho potuto concludere.