In un libro l’indagine semiotica e psicologica delle storie create dai pazienti
La prima di queste iniziative è stata “Tutti Bravi”, un concorso a tema e forma espressiva liberi, a cui è seguito, due anni fa, “Favole, favole, favole”: l’invito, sempre a i bambini ricoverati di entrare nel fantastico mondo del C’era una volta. Un percorso intenso e spesso drammatico che impone un ripensamento generale sulla necessità di affrontare le patologie gravi, non solo ed esclusivamente attraverso l’impiego di irrinunciabili cure, ma anche di altrettanto fondamentali supporti psicosociali a sostegno del paziente e della qualità della sua vita.Del resto “lo scopo dell’oncologia pediatrica – spiega Giuseppe Basso, presidente dell’AIEOP – è fare in modo che i bambini abbiano in futuro una vita normale, la più normale possibile. Oltre all’intervento terapeutico, diventa dunque di fondamentale importanza che anche durante la malattia il bambino non perda il contatto con il suo mondo – la scuola, la famiglia, le amicizie -: si senta cioè uguale ai compagni e i compagni non lo considerino diverso da loro. In questo contesto progetti come “Tutti Bravi” e “Favole, favole, favole…” sono di fondamentale importanza, proprio perché curano un aspetto che non è direttamente quello della malattia, ma che fa parte integrante del trattamento globale. Il momento ludico e creativo consente infatti ai piccoli di mantenere e sviluppare la propria fantasia anche nei periodi passati in ospedale”. Un approccio questo che ha una tradizione ormai ventennale all’Ospedale Mayer di Firenze, “da quando cioè – illustra Gabriella Bernini, primario dell’Unità di oncoematologia – è iniziata un’attività di teatro e di animazione, che vede impegnati in prima persona medici e operatori sanitari e che ha lo scopo di rallegrare durante le feste più importanti i bambini costretti a stare in corsia. Dal 1995 è stata aperta la ludoteca e in ospedale è entrata la musica. Cinque anni fa sono arrivati i clown dottori: si sono affacciati quasi in sordina in Oncoematologia ed è stata un’esperienza entusiasmante per come sono stati accolti e si sono integrati nella vita di tutti i giorni. La dimostrazione è che molti bambini accettavano le procedure dolorose con tranquillità solo ed esclusivamente alla presenza dei pagliacci”.
Ma cosa hanno detto agli esperti queste favole? “Le strutture formali della narrazione – sostiene Marina Sbisà, docente di filosofia del linguaggio all’Università di Trieste – e in particolare della narrazione fiabesca consentono la gestione indiretta di domande esistenziali profonde: il senso del vivere e del soffrire, il senso dell’individualità e delle relazioni con gli altri. Questa gestione viene condotta utilizzando le strutture generali dell’immaginario narrativo con la grazia e la decisione tipica dei bambini, ora accettando a cuor leggero convenzioni e aspettative riconosciute (quale ad esempio il “lieto fine”), ora integrandole o sostituendole con scelte poco o per nulla ortodosse ma che possono dare molto a pensare”.
“La malattia – aggiunge Pia Massaglia, ricercatore presso la sezione di Neuropsichiatria Infantile all’Università di Torino – rende più difficile l’elaborazione simbolica in quanto rappresenta la concretizzazione reale delle ansie presenti nelle varie tappe del percorso evolutivo. In quest’ottica sono individuabili modalità di coping che consentono ai bambini malati di preservare preziosi spazi di vita liberi dalla malattia e dalla sofferenza mentale; a questo proposito è significativo come solo una piccola parte degli elaborati si riferisca in modo esplicito all’esperienza di malattia e di terapia: i bambini mantengono così la progettualità personale e i propri legami di amicizia, anche se in una dimensione prevalente di ricordo, di desiderio e/o di sogno. Se però analizziamo i pochi testi con riferimenti espliciti al tumore e/o alla cura e ricomponiamo i diversi frammenti di racconto, ricostruiamo una “storia” di malattia drammatica fin dall’inizio. L’esordio è tratteggiato come un precipitare improvviso e inatteso di eventi sempre più sfavorevoli, cui si accompagnano angosce di impotenza e di confusione, sentimenti di terrore rispetto agli adulti (genitori – medici – infermieri), inspiegabilmente coalizzati nell’attuare un piano crudele (perché comporta interventi aggressivi). Si tratta di una situazione emozionale primaria, in cui sono presenti dinamiche di scissione che producono personaggi malvagi contrapposti a quelli salvifici, luoghi di pena (letto di ospedale) e di gioia (casa), come nelle fiabe. Se i curanti prendono in considerazione l’importanza di favorire nei piccoli pazienti una visione realistica degli eventi e di sostenere in loro un atteggiamento di fiducia – conclude Massaglia – possono contribuire in modo significativo ad attenuare nei bambini le interpretazioni estreme dell’esperienza di malattia e di terapia. Ricevere attenzione e ascolto promuove in loro la consapevolezza di essere curati e permette loro di raccontare, quando e come lo sentono possibile e desiderabile, emozioni, sentimenti e pensieri su vari momenti della loro storia passata, presente e futura. Si ristabilisce allora gradualmente la prospettiva di continuità dell’esistenza, che era stata offuscata dalla presenza della malattia tumorale, ora ridimensionata nella sua pervasività emotivamente traumatica”.