I VIRUS MUTANTI
C’è dunque un grande bisogno di nuovi farmaci contro il virus dell’epatite B, in Italia e nel mondo. La lamivudina si inserisce in maniera importante nell’armamentario terapeutico. Si tratta infatti di un farmaco la cui efficacia, nel contesto generale dell’epatite B, è stata ormai ampiamente dimostrata in molte migliaia di casi trattati in tutto il mondo. Mi riferisco a questi perché gran parte delle casistiche di pazienti con epatite B trattati con lamivudina è composto da pazienti con epatite B cosiddetta HBeAg positiva, cioè legata all’infezione con il virus di tipo standard, che produce l’HBeAg. Una malattia che è intrinsecamente meno cattiva dell’epatite da virus B mutante, perché la presenza dell’HBeAg – una specie di modulatore della risposta immune – ne consente solitamente un decorso migliore e una relativamente maggiore responsività alla terapia, anche a quella convenzionale con interferone (successo nel 20-40% dei pazienti trattati). La lamivudina raggiunge in questo contesto percentuali di efficacia molto buone, nell’ordine del 50-60% di stabile riduzione della replicazione di HBV, con perdita dell’HBeAg e comparsa dei relativi anticorpi. E’ invece molto rara, se non anni dopo la cessazione della replicazione virale, la scomparsa dell’altra proteina del virus che circola nel sangue, cioè l’antigene di superficie (HBsAg). La lamivudina ha soprattutto dimostrato una straordinaria innocuità: se con l’interferone la percentuale di sospensioni della terapia per intolleranza o per effetti collaterali era del 10-15%, con la lamivudina è inferiore al 2-3%. Questi dati, che dimostrano grande sicurezza e buona efficacia del farmaco a livello mondiale, sono stati confermati anche in studi, numericamente più limitati, condotti nei pazienti con epatite da HBV mutante, di cui l’Italia ha un numero di casi superiore alla media. Anche in questo caso i dati sono più che soddisfacenti e dimostrano che il 40-50% delle persone che ricevono il trattamento con la lamivudina ottiene una stabile e duratura inibizione della replicazione del virus. Non è tuttavia ancora noto quanto il beneficio della lamivudina sia mantenuto a lungo termine, e per quanto si debba andare avanti con il trattamento. Il ciclo attualmente suggerito dura 1 anno, con somministrazione giornaliera di una compressa del farmaco. E’ tuttavia prevedibile che esperienze cliniche, attualmente in corso, orientino in futuro verso trattamenti di lungo periodo. Altro punto di notevole rilievo è che la lamivudina può essere somministrata anche ai pazienti con cirrosi in fase avanzata. In questi casi una terapia antivirale efficace può significare la differenza fra un’ulteriore progressione di malattia verso l’insufficienza epatica e quindi la morte ed un ritorno ad una classe funzionale accettabile. In questo senso ci sono esperienze iniziali piuttosto promettenti. Nel mio Istituto stiamo sperimentando l’uso della lamivudina nella cirrosi in fase avanzata e direi che nella quasi totalità dei pazienti trattati è stato possibile ottenere un arresto della progressione della malattia e in alcuni casi un miglioramento talmente netto da ovviare alla necessità di un trapianto epatico.
Credo che sulla lamivudina non sia necessario dire altro se non che, come tutte le terapia antivirali, ha un limite: la comparsa di mutazioni del virus resistenti al farmaco. Un po’ come i batteri che presentano mutazioni che li rendono insensibili agli antibiotici, anche i virus possono avere sotto terapia delle mutazioni, e questo accade anche al virus dell’epatite B, sotto l’effetto dei farmaci antivirali. La prossima tappa sarà quindi quella delle terapie di combinazione, che prevedano l’abbinamento della lamivudina con altri farmaci antivirali (interferone o altre sostanze ad effetto antivirale diretto), in modo da poter aggredire il virus da più punti per arrivare alla sua eradicazione e ottenere un successo terapeutico in un numero ancora maggiore di casi.