NIVOLUMAB VS EVEROLIMUS NEL CARCINOMA RENALE AVANZATO
“Lo studio CheckMate 025 è stato disegnato con l’intento di rispondere ad uno specifico quesito clinico – ha commentato il dottor Giuseppe Procopio, responsabile di S.S. Oncologia medica genitourinaria della Fondazione IRCCS, Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e co-autore dello studio -, quello di validare un’alternativa terapeutica nel carcinoma renale metastatico (mRCC) progredito dopo terapia con inibitori tirosinchinasici (TKI). Lo studio randomizzato di fase III, in aperto, prevedeva il confronto tra un braccio di controllo attivo con everolimus, considerato uno standard di riferimento in questo setting, e nivolumab. È uno studio di superiorità con obiettivo primario un vantaggio in sopravvivenza in favore del braccio sperimentale. Il razionale preclinico ed i dati clinici preliminari supportavano l’attuazione di uno studio con queste caratteristiche. Il disegno dello studio prevedeva un ‘sample size’ adeguato (821 casi totali), una metodologia accurata con randomizzazione 1:1, stratificazione in base all’area geografica del centro arruolatore, la categoria prognostica di rischio del paziente ed il numero di precedenti trattamenti antiangiogenetici. La popolazione arruolata era ben bilanciata nei due bracci di trattamento ed era molto rappresentativa delle caratteristiche generali presenti in questi pazienti (istologia a cellule chiare, no evidenza di metastasi cerebrali e prevalenza di casi a prognosi buona o intermedia). Tutti i pazienti avevano ricevuto in precedenza uno (72 %) o due TKI (28%). Lo studio ha registrato una differenza statisticamente significativa e clinicamente rilevante in favore di nivolumab in sopravvivenza globale (25 vs 19.5 mesi; p = 0.002). Il vantaggio in favore di nivolumab viene rilevato anche in termini di risposte obiettive (25 vs 5%; p < 0.001) e di severità e incidenza di eventi avversi. Nessuna differenza in sopravvivenza libera da progressione (4.6 vs 4.4 mesi; p = 0.11)”.
“Lo studio è indiscutibilmente positivo – prosegue il dott. Procopio – perché nivolumab dimostra di essere superiore per efficacia e tollerabilità ad everolimus. Nivolumab diventa pertanto il trattamento di riferimento dopo fallimento a TKI nel mRCC. L’analisi dei sottogruppi rileva come solo la popolazione ‘very elderly’ (> 75 anni) sembra non avere beneficio da tale terapia, seppur il limitato numero di casi arruolati con queste caratteristiche potrebbe costituire un rilevante bias interpretativo. La mancata identificazione dello status di PD-L1 quale fattore predittivo di risposta lascia aperta la questione sull’identificazione dei pazienti potenzialmente non responsivi nonché nella costruzione di un algoritmo terapeutico basato su criteri clinici e non molecolari. In tal senso l’evidenza di efficacia di cabozantinib, rilevata nello studio METEOR, condotto in una popolazione sovrapponibile a quella dello studio CheckMate 025 e con lo stesso braccio di controllo con everolimus, lascia aperta la discussione in merito al miglior utilizzo dei diversi agenti terapeutici in via sequenziale. Un’ultima questione che i due studi lasciano aperta – conclude Procopio – è quale debba essere il più corretto endpoint per uno studio in questa fase di malatttia. Il METEOR infatti aveva come obiettivo primario la sopravvivenza libera da progressione e non la sopravvivenza globale e se è sicuramente vero che, considerando il diverso meccanismo di azione di nivolumab rispetto a cabozantinib, entrambi gli studi sono stati disegnati su un corretto endpoint, la correlazione tra la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale è tutt’altro che chiaramente dimostrata”.