sabato, 5 ottobre 2024
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4 Ottobre 2007

TUMORE DEL FEGATO: ITALIANI SCOPRONO GENE “BERSAGLIO”

Il prof. Bolondi: “I risultati del nostro studio dimostrano come sia possibile potenziare gli effetti della chemioterapia”. 12.000 nuovi casi ogni anno nel nostro Paese

Bologna, 4 ottobre 2007 – È “made in Italy” la scoperta di un nuovo gene che potenzia l’effetto della chemioterapia nel tumore del fegato: un risultato che fa sperare in un miglior trattamento di questa patologia. Protagonista è il Centro di Ricerche Biomediche Applicate (CRBA) del Policlinico S.Orsola Malpighi di Bologna, guidato dal prof. Luigi Bolondi: “Negli ultimi anni la conoscenza di alcuni meccanismi molecolari dell’epatocarcinogenesi ha permesso di individuare “target” terapeutici per nuovi farmaci. Nel nostro Centro – spiega il prof. Bolondi, Direttore del Dipartimento di Malattie dell’Apparato Digerente e Medicina Interna del Policlinico S. Orsola Malpighi – abbiamo sviluppato in particolare un progetto di ricerca sul ruolo dei geni Notch. I risultati indicano che questo gene esercita un’ azione diretta sulla resistenza a un farmaco chemioterapico, la Doxorubicina, aprendo importanti prospettive di cura basate sul silenziamento del gene. E’ verosimile infatti che lo stesso effetto di rinforzo dell’efficacia terapeutica si possa verificare anche per altre molecole antitumorali”. Il cancro del fegato era una patologia orfana per le terapie mediche fino a quando, al Congresso dell’American Society of Clinical Oncology, sono stati presentati risultati molto significativi con l’utilizzo del sorafenib, molecola già utilizzata con successo nel tumore del rene. Si tratta di una neoplasia particolare perchè, come una bomba ad orologeria, può esplodere da un momento all’altro in persone già ben identificate. La cirrosi è infatti la principale condizione che determina l’insorgenza del cancro. Circa il 3% degli oltre mezzo milione di pazienti con epatopatia cronica in evoluzione cirrotica nel nostro Paese, oltre 12.000 persone, sviluppa l’epatocarcinoma ogni anno. Il Centro emiliano rappresenta un punto di riferimento internazionale per l’assistenza e lo studio di questa patologia, non a caso il gruppo del prof. Bolondi sarà tra i protagonisti al Congresso internazionale dell’International Liver Cancer Association, in corso da domani a Barcellona.

La conoscenza dei geni Notch, e del loro ruolo nel tumore del fegato, è relativamente recente. “Nei primi 2 anni di ricerca – continua il prof. Bolondi – abbiamo innanzitutto dimostrato che il Notch1 e il Notch3 sono particolarmente espressi nelle linee tumorali epatiche. In seguito, ne abbiamo analizzato l’influenza sulla regolazione del ciclo cellulare e verificato il ruolo nella risposta alle terapie antitumorali. In particolare, abbiamo valutato gli effetti del silenziamento del gene Notch 3 sulla efficacia della chemioterapia con Doxorubicina, che è un farmaco è tra i più utilizzati per la chemioterapia degli epatocarcinomi. I risultati del nostro esperimento dimostrano che le cellule silenziate Notch3 trattate per 24 ore con Doxorubicina muoiono in misura 3 volte maggiore rispetto ai controlli. Inoltre la capacità di incorporare e trattenere Doxorubicina aumenta in assenza di Notch3. Questa scoperta, così come le modalità tecniche per il silenziamento del gene sono coperte da brevetto”.
Il tumore del fegato origina, nella stragrande maggioranza dei casi, in persone già malate di cirrosi: epatiti e alcol rappresentano quindi i principali fattori di rischio. Per evitare l’insorgenza del cancro è molto importante un’attenta sorveglianza della malattia, con controlli semestrali. Conoscere la popolazione a rischio permette infatti di testare strategie preventive e la ricerca si sta inoltre concentrando nell’individuazione di fattori predittivi. “Per fortuna oggi nuove speranze per il trattamento di questa patologia arrivano anche dai farmaci biologici –aggiunge il prof. Bolondi -. In particolare, una molecola, il sorafenib, ha dimostrato di aumentare di più del 40% la sopravvivenza dei pazienti con carcinoma epatocellulare. L’elemento davvero determinante è instaurare un trattamento appropriato fin dalle prime fasi, e intervenire precocemente per contenere l’evoluzione della malattia. Per questo, – conclude il prof. Bolondi – è fondamentale un approccio integrato che veda la collaborazione fra epatologo, che già conosce ed ha in cura il malato, ed oncologo”.
Ma anche il ruolo del medico di famiglia è cruciale, soprattutto per la sorveglianza: non vanno sottovalutate ad esempio le alterazioni dei valori delle transaminasi, che possono segnalare l’insorgenza di una malattia del fegato.
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