Più è rapido il battito più aumenta il pericolo di ammalarsi. Per frenare l’eccessiva ‘velocità’ del cuore in arrivo una molecola, ivabradina, frutto della ricerca italiana
Barcellona, 3 settembre 2006– Gli specialisti ne sono certi: la frequenza cardiaca è un fattore di rischio per infarto e ictus, proprio come l’ipertensione, il colesterolo alto, l’abitudine al fumo. Hai un polso che batte fra i 55 e i 70 battiti al minuto? Stai tranquillo. Sei fra i 70 e gli 80? Hai una frequenza moderatamente elevata. Oltre gli 80? Fai attenzione. Se il cuore corre ancora più velocemente non c’è tempo da perdere, è necessario rivolgersi al medico. La notizia viene dal congresso europeo – che quest’anno si svolge insieme al mondiale – di Cardiologia in corso nella capitale catalana fino al 6 settembre e che riunisce oltre 40.000 delegati.
“Da tempo ormai, si è sviluppato un forte movimento nella comunità scientifica per rivalutare il valore prognostico della frequenza cardiaca – spiega il prof. Roberto Ferrari, direttore della clinica Cardiologia dell’università di Ferrara e vicepresidente della Società europea di Cardiologia – e far sì che diventi anche un vero e proprio fattore di rischio coronarico e non un semplice indice che qualche cosa non va per il verso giusto. Non più solo un’ipotesi ma una convinzione che trova valore scientifico in 4 studi pubblicati sulle principali riviste internazionali di settore (New England, Lancet, European Heart Journal) che dimostrano che avere una elevata frequenza cardiaca sia nella popolazione generale, (oltre 150.000 pazienti seguiti per circa 35 anni, con rilevazioni biennali della frequenza cardiaca dall’elettrocardiogramma), che, soprattutto, in quella con altri fattori di rischio (ipertensione in primo luogo) o già infartuati comporta un pesante incremento di gravi malattie e di morte. Queste persone muoiono prima di quelle che hanno frequenza 50/60 o 60/70 e muoiono essenzialmente per malattie cardiovascolari, oncologiche e ictus.
“Si tratta di una vera e propria novità – aggiunge il prof. Ferrari – perchè è un fattore di rischio facilmente misurabile, (basta tastare il polso), non invasivo e facilmente apprezzabile. In un infartuato per stabilire la prognosi facciamo una scintigrafia o una angiografia, mentre basterebbe prendergli il polso e si potrebbero avere indicazioni molto precise se le cose vanno bene o male. Ma non solo. Controllare la frequenza cardiaca obbliga il medico a toccare il paziente e potrebbe rappresentare una linea di contatto maggiore, il modo attraverso cui il corpo comunica con l’esterno. E il malato – aggiunge Ferrari – vuole avere questo rapporto diretto perché il contatto fisico rassicura, molto di più che inserire un catetere o una sonda”.
Ma non sono solo i lavori clinici a dimostrare che la frequenza cardiaca rappresenta un fattore di rischio. Vi è un’ altra prova estremamente affascinante. “Nel mondo animale – spiega il prof. Ferrari che da tempo si occupa di questi aspetti – vi è correlazione netta tra durata della vita e frequenza cardiaca: se si moltiplica la frequenza cardiaca media per la durata della vita media risulta un numero sempre uguale. Stesso numero per il colibrì, il cui cuore batte 600 volte al minuto e vive 5 mesi e per la tartaruga che fa 6 battiti al minuto e vive 154 anni. Fra questi due estremi, vi sono numerosissimi animali che formano una ipotetica linea che li congiunge, sempre moltiplicando la loro frequenza cardiaca media per la durata di vita media. Un risultato strabiliante che ha fatto nascere fra gli studiosi la teoria per cui probabilmente i mammiferi nascono con un numero di battiti che è preordinato ed uguale per tutti. Per l’uomo questa regola sembra non valere: probabilmente perché è stato in grado, grazie all’evoluzione ed ai progressi della medicina, di aumentare la durata della vita per quella frequenza: con una frequenza di 60 al minuto, dovremmo vivere 22 anni. E non è un caso che la scienza ha dimostrato come dai 20 anni in poi per ciascuno di noi cominciano i piccoli problemi, come l’inizio dell’aterosclerosi. Dunque, anche l’uomo potrebbe confermare questa affascinante teoria. Ma – ed è uno dei grandi temi che vengono affrontati al congresso mondiale di Barcellona – se la frequenza cardiaca rappresenta un fattore di rischio, per stabilirlo si deve dimostrare scientificamente che riducendo i battiti si allunga la vita. Gran parte dei farmaci che la riducono (betabloccanti, digitale, calcioantagonisti) svolgono anche altre azioni. Proprio la ricerca italiana, però, – che al congresso sta registrando un grande successo – ha scoperto che la frequenza cardiaca è regolata dall’attività di alcuni canali che si chiamano canali “If”. Canali che vengono bloccati in modo selettivo dall’ivabradina, una molecola ‘made in Italy’ distribuita dalla fiorentina Stroder. “Si tratta di una molecola che blocca l’attività dei canali If e riduce esclusivamente la frequenza cardiaca, con un enorme vantaggio perché, essendo selettiva, non presenta gli effetti indesiderati classici degli altri farmaci, come broncospasmo, riduzione della contrattilità che hanno, per esempio, i betabloccanti – afferma il prof. Ferrari -. Questo farmaco è stato studiato nel più grande programma che sia stato mai realizzato per l’angina con il reclutamento di oltre 5000 pazienti ed è già stato approvato dall’EMEA poiché si è dimostrato efficace e ben tollerato. Già disponibile in Inghilterra, Germania, Irlanda, Danimarca, dovrebbe esserlo anche nel nostro paese entro il 2006. “E’ una grande innovazione – commenta il prof. Ferrari – perché è il capofila di una nuova classe di farmaci e perché ci permetterà di trattare pazienti che oggi non possiamo trattare con i farmaci disponibili. Verrà inoltre studiato anche nello scompenso cardiaco, con due studi che sono già in corso, il BEAUTIFUL (su 10.000 pazienti) e lo SHIFT (su 5.000)”.