lunedì, 5 giugno 2023
Medinews
13 Marzo 2006

LINFOMA NON HODGKIN, NUOVE SPERANZE DI CURA

Il prof. Mandelli: “Possiamo curare pazienti su cui anche i trattamenti più sofisticati non hanno sortito effetto. Al 30% di loro possiamo offrire una risposta totale”

Roma, 4 marzo 2006 – Una vera svolta per i pazienti colpiti da linfoma non-Hodgkin, in Italia circa 14.000 ogni anno, che, da sempre trattati con chemioterapia, radioterapia e trapianti di cellule staminali, necessitano di trattamenti più efficaci e ben tollerati, soprattutto in caso di recidiva. Ora – annunciano gli esperti – c’è un’arma in più: è un nuovo anticorpo monoclonale immunoconiugato, l’ibritumomab, associato a radioisotopo ittrio-90 che ne potenzia l’effetto. “Con questa procedura terapeutica – commenta il prof. Franco Mandelli professore di ematologia l’Università La Sapienza di Roma – siamo riusciti a colmare un vuoto terapeutico. Possiamo infatti curare con successo soprattutto pazienti per i quali anche i trattamenti più sofisticati non hanno sortito effetto. Al 30% di loro possiamo pensare di offrire addirittura la risposta totale”. Questo nuovo e promettente anticorpo monoclonale è oggetto di un incontro dal titolo “Discutendo di radioimmunoterapia nei linfomi” che si svolge oggi a Roma, all’Ambasciatori Palace Hotel.

I linfomi sono i più diffusi tumori del sangue: colpiscono molti giovani, spesso bambini ma anche anziani, e risultano in preoccupante aumento negli ultimi anni. I linfomi non Hodgkin sono i più diffusi, l’80% del totale. E sono anche i più difficili da curare: le percentuali di guarigione si aggirano infatti intorno al 50% per le forme più aggressive, precipitando al 20-30% nelle forme “indolenti”, meno aggressive ma più difficili da eradicare totalmente. “Si tratta di una malattia curabile ma tante volte non guaribile – spiega il prof. Mandelli, uno dei massimi ematologi a livello mondiale – che colpisce tutte le età della vita, bambini, giovani, adulti, ma anche persone molto anziane. Per molti di loro l’90Y-ibritumomab tiuxetano (Zevalin) costituisce uno vero e proprio spartiacque, la sola alternativa all’accanimento terapeutico”. Un’alternativa davvero efficace come dimostrano gli studi sull’anticorpo condotti recentemente: un trial clinico multicentrico, randomizzato, controllato, prospettico di fase III condotto su 143 pazienti affetti da linfomi a basso grado follicolari o trasformati e che ha confrontato Zevalin e rituximab ha evidenziato un 80% di risposte nel braccio ibritumab (contro 56%) e un 30% di risposte totali (contro 16%).
Zevalin è la prima radioimmunoterapia approvata in Europa per il linfoma non Hodgkin. Certo non è l’unico farmaco di questo tipo. “Esistono altri anticorpi monoclonali che hanno la stessa indicazione terapeutica – specifica infatti il prof Carlo Ludovico Maini, Direttore della Divisione di Medicina Nucleare dell’Istituto Tumori “Regina Elena” di Roma – al momento disponibili solo negli Stati Uniti. Non costituiscono però un’alternativa allo Zevalin, che risulta superiore non solo sotto il profilo radiante e di efficacia, ma anche in termini di minori effetti collaterali”. La terapia risulta infatti ottimamente tollerata dai pazienti, riducendo al minimo fastidi come tremori, nausea e febbre.
Ottimale anche il profilo farmacoeconomico, che solitamente depone a sfavore dei farmaci di nuova generazione, efficaci ma costosi. “La radioimmunoterapia con Zevalin – ammette il prof Maini – non è economica, costa 12mila euro. È anche vero però che la spesa è sostanzialmente sovrapponibile a quella sostenuta per un ciclo di chemioterapia, visto che il farmaco viene somministrato una sola volta, con grandi benefici per il paziente, sollevato dall’obbligo di presentarsi periodicamente per le terapie”.
Concorda il prof. Mandelli, che aggiunge “È giusto impegnarsi a limitare i costi sanitari. È altrettanto importante però non parlare di risparmio quando il farmaco in questione non solo allunga la vita dei pazienti ma può offrire loro addirittura una concreta speranza di guarigione”.
Secondo gli esperti lo Zevalin andrebbe quindi inserito a pieno titolo nei protocolli terapeutici contro il linfoma Non-Hodgkin. “Evidentemente – conclude il prof. Mandelli – sono necessari ancora numerosi studi e anni per valutare tutte le potenzialità della procedura. Sono convinto però che sarà possibile in futuro allargare l’indicazione terapeutica dello Zevalin, utilizzandolo anche in prima linea, in pazienti ben selezionati”.
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