JAMA pubblica uno studio tutto italiano, coordinato dal prof. Giusto Spagnoli
Roma, 27 ottobre – Solo il 26% dei pazienti con stenosi carotidea di alto grado che vengono sottoposti ad interventi chirurgici di rimozione delle placche presenti nella carotide ne ha realmente bisogno. Lo conferma uno studio italiano condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tor Vergata coordinato dal prof. Giusto Spagnoli e che ha meritato la pubblicazione sulla prestigiosa rivista JAMA (The Journal of the American Medical Association). “Lo studio – spiega il prof. Spagnoli, direttore della Cattedra di Anatomia Patologica di Tor Vergata e commissario straordinario degli Istituti Fisioterapici Ospitalieri di Roma – mette in luce come il livello di infiammazione e di trombosi e non il grado di stenosi dell’arteria carotidea costituiscano il più importante fattore di rischio di ictus. Sempre secondo lo studio, nei pazienti ad alto rischio, che hanno cioè già subito un ictus, il 40% delle placche rimane attivo e continua a formare trombi. Questi individui corrono quindi il pericolo di subire un nuovo evento. Infatti, un gruppo compreso tra il 15 ed il 29% di loro andrà effettivamente incontro a un secondo attacco, spesso devastante o addirittura mortale”.Una volta evidenziata la necessità di guardare verso una nuova direzione è importante individuare i mezzi per “scovare” l’eventuale presenza di infiammazione delle placche. È importante inoltre reimpostare le priorità dell’industria e della ricerca sanitaria italiana e internazionale, per indagare in modo efficace queste nuove frontiere e mettere a punto i mezzi per combatterla.
Terza causa di morte nel mondo, l’ictus colpisce in Italia una volta ogni tre minuti, circa 500 volte al giorno e 186 mila in un anno. Fino ai 65 anni interessa in media un italiano su 1000, dopo i 65 anni uno su 70. Fino ai 70 anni colpisce più uomini che donne, dopo i 70 ne fa maggiormente le spese il sesso femminile. E c’è differenza anche fra le zone geografiche: la prevalenza è maggiore al Sud (7,3%) rispetto al Centro (5,7) e al Nord (6,5). Tra i principali fattori di rischio vi è il TIA, l’attacco ischemico transitorio, che colpisce ogni anno un numero 4 volte maggiore di individui che da questo momento vengono considerati “pazienti sintomatici”. A questi viene valutato il grado di stenosi dell’arteria carotide, considerato indice di rischio: chi presenta oltre il 70% di occlusione viene sottoposto ad intervento chirurgico di rimozione della placca con un rischio di mortalità perioperatoria pari al 2-3%. I risultati dello studio suggeriscono di mettere a punto un metodo nuovo per stratificare i pazienti eleggibili di intervento chirurgico sulla carotide, tramite endoarterectomia od impianto di uno stent.
“Cambiare criterio selettivo privilegiando la presenza di infiammazione – sottolinea il prof. Spagnoli – richiede la messa a punto di metodi di rilevazione ad hoc. Alcuni sono già in uso – come la valutazione di marcatori dell’infiammazione o l’ecotomografia, che esplorano la qualità della placca presente sulla carotide – oltre che la stenosi e la presenza di profili alterati della parete che possono far supporre la presenza di materiale trombotico.
Altri mezzi diagnostici sono ancora in sperimentazione, tra cui l’utilizzo di anticorpi radioattivi (per esempio anticorpi contro le citochine). Anche la termografia mediante sonde intravascolari presenta notevoli potenzialità grazie alla sua capacità di rilevare la temperatura della placca e quindi il suo stato di infiammazione. Gli stessi ricercatori dell’Università di Tor Vergata, in collaborazione con i medici nucleari dell’Università di Roma “La Sapienza”, hanno per esempio condotto un lavoro su un marcatore dell’infiammazione in attesa di pubblicazione a cui dovranno seguire trial clinici che richiederanno due-tre anni.
Una volta evidenziata la presenza di placche infiammate è necessario provvedere a “raffreddarle”. “In Italia – aggiunge Spagnoli – ad oggi sono ancora poco diffuse le esperienze delle “Stroke Unit” che insieme a tecniche interventistiche di ricanalizzazione precoce del vaso e rimozione del trombo in soggetti con stroke acuto rappresentano un’alternativa terapeutica per i questi pazienti ad altissimo rischio per l’endarterectomia chirurgica. Negli Stati Uniti frequentemente i pazienti che hanno subito un evento cerebrovascolare vengono sottoposti all’intervento chirurgico, anche se a distanza di tempo. Esistono però concreti rischi associati che in casi particolari possono raggiungere un rischio di complicanze perioperatorie pari al 10%. Appare quindi preferibile, e diversi studi lo evidenziano – tra cui uno americano appena pubblicato sul New England Journal of Medicine – ricorrere alla tecnica di stenting che presenta in questi soggetti un rischio più ridotto, pari al 4.4%, anche se, valutate ad un anno di distanza, le due tecniche si equivalgono.
Un’ulteriore alternativa all’intervento chirurgico è costituita dalla terapia medica. La strada da percorrere su questo fronte è però ancora lunga. Sono attualmente in uso farmaci antitrombotici ed anticoagulanti, tra questi solo l’aspirina appare moderatamente efficace nel prevenire nuovi eventi vascolari in pazienti sintomatici. “Con questo lavoro abbiamo indicato un bersaglio da raggiungere – commenta il prof Spagnoli -, spetta poi al mondo della ricerca sanitaria e all’industria operare in modo che a queste indicazioni corrisponda un preciso sforzo per mettere a punto terapie efficaci che riducano al minimo il numero di interventi chirurgici”.